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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 11/06/2024

    Lavoro - Società cooperativa consortile - Rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno (anziché part time) - Domanda di riconoscimento dell’orario full time e del superiore inquadramento - Indennità sostitutiva delle ferie non godute - Onere della prova - Inammissibilità

     

    Rilevato che

     

    1. La Corte d'Appello di Roma ha respinto l’appello di K.M., confermando la pronuncia di primo grado, con cui era stata rigettata la domanda volta a far dichiarare che tra la predetta e la C. società cooperativa consortile era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno (anziché part time) nei periodi 8.8.2014-19.12.2014; 8.1.2015-18.12.2015; 7.1.2016-30.4.2017, con diritto all’inquadramento nel IV livello del c.c.n.l. Pubblici Esercizi, anziché nel V livello riconosciuto.

    2. La Corte territoriale ha ritenuto che le prove raccolte non dimostrassero né l’esecuzione della prestazione con un orario superiore a quello risultante dal contratto (di 35 ore settimanali) e neppure lo svolgimento delle dedotte mansioni di cuoca (superiori a quelle attribuite di aiuto cuoca), se non in maniera occasionale e in sostituzione di uno dei due cuochi.

    La ricorrente non aveva neanche dimostrato il possesso di particolari conoscenze e capacità tecnico-pratiche nel settore, richieste per i lavoratori del IV livello. Parimenti infondata, secondo i giudici di appello, era la domanda di differenze retributive (per 13°, 14° mensilità, t.f.r., straordinario e differenze paga) riferite al V livello, avendo la ricorrente depositato conteggi in base al superiore inquadramento e all’orario full time, ed anche la domanda di differenze retributive per festività, ferie e riposi non goduti in assenza di prova dei relativi presupposti.

    3. Avverso tale sentenza K.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. La C. società cooperativa consortile ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

    4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.

     

    Considerato che

     

    5. Con l’unico motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per errata attribuzione dell’onere di prova alla lavoratrice. Si premette che la lavoratrice era inquadrata nel V livello del c.c.n.l. Pubblici Esercizi con orario di 35 ore settimanali, come risultante dalle lettere di assunzione depositate in allegato al ricorso introduttivo di primo grado, e che era onere del datore di lavoro provare di aver corrisposto gli emolumenti maturati in relazione ai periodi contrattualizzati; che nelle conclusioni formulate in appello la lavoratrice aveva chiesto la condanna della società alla “minor o maggior somma ritenuta più giusta e più equa”; che la Corte di merito avrebbe dovuto riconoscere alla lavoratrice gli importi come calcolati in base ai conteggi depositati (e riprodotti nel corpo del ricorso per cassazione) oppure ammettere una c.t.u.; che non può configurarsi una mutatio libelli avendo la parte attrice unicamente ridotto l’originaria domanda.

    6. Il motivo non può trovare accoglimento.

    7. La ricorrente assume di avere proposto due domande: una domanda di riconoscimento dell’orario full time e del superiore inquadramento, con condanna della società al pagamento delle differenze retributive conseguenti a tali diverse modalità di esecuzione del rapporto; un’altra domanda di pagamento di differenze retributive rivendicate in relazione al lavoro svolto secondo il contenuto delle lettere di assunzione (part time di 35 ore settimanali e V livello contrattuale).

    8. La sentenza d’appello, nella parte dedicata allo svolgimento del processo, riassume la domanda formulata dalla lavoratrice col ricorso introduttivo di primo grado nel modo seguente: “con ricorso innanzi al tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, K.M. chiedeva che fosse accertato e dichiarato che tra lei e la C. era intervenuto un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno nei periodi 8.8.2014-19.12.2014; 8.1.2015-18.12.2015; 7.1.2016-30.4.2017, con diritto all’inquadramento nel IV livello del c.c.n.l. Pubblici Esercizi, superiore al V livello in cui era stata contrattualizzata.

    Domandava, per l’effetto, che detta società fosse condannata al pagamento in suo favore di euro 33.602,37 a titolo di differenze retributive, mensilità aggiuntive, ferie, permessi, compensi per lavoro straordinario e TFR”. Aggiunge, nel prosieguo, che la predetta aveva anche allegato di “non aver fruito di permessi retribuiti e di aver lavorato nei giorni delle festività soppresse”.

    9. La sentenza d’appello ha ritenuto che la lavoratrice non avesse dimostrato di aver lavorato a tempo pieno e di aver svolto mansioni corrispondenti al superiore inquadramento rivendicato. Ha inoltre rilevato il difetto di prova, di cui era onerata sempre la lavoratrice, del mancato godimento di riposi, festività e ferie per cui era chiesto il pagamento delle indennità sostitutive.

    10. Nella distribuzione dell’onere di probatorio, la Corte di merito si è uniformata ai principi enunciati da questa Corte secondo cui il lavoratore che agisca in giudizio per chiedere la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute ha l'onere di provare l'avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinate, atteso che l'espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell'indennità suddetta, mentre incombe sul datore di lavoro l'onere di fornire la prova del relativo pagamento (Cass. n. 8521 del 2015; n. 26985 del 2009; n. 22751 del 2004) oppure di avere esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente posto in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto (così Cass. n. 21780 del 2022). Analoghi principi valgono per la domanda relativa a festività o riposi non goduti (v. Cass. n. 5649 del 2004; n. 4223 del 1992).

    11. Non vi è quindi spazio per ravvisare, rispetto alla domanda di indennità per mancato godimento di riposi, festività e ferie, la violazione dell’art. 2697 c.c.

    12. La ricorrente assume infine di avere, in appello, ridotto la domanda chiedendo le differenze retributive connesse all’esecuzione dei rapporti di lavoro in conformità alle lettere di assunzione (part time e inquadramento nel V livello) e allega, nel corpo del ricorso per cassazione, conteggi relativi al calcolo delle differenze retributive a tale titolo rivendicate.

    13. Ove anche si qualificasse il motivo in esame in termini di omessa pronuncia su un capo di domanda, dovrebbe tuttavia rilevarsi il mancato rispetto delle prescrizioni imposte dall’art. 366 n. 4 c.p.c. (v. Cass., S.U. n. 8950 del 2022; Cass. n. 12481 del 2022), atteso che la ricorrente ha omesso di trascrivere, anche solo nelle parti essenziali, gli atti processuali necessari a comprovare la proposizione, in primo grado e in appello, della domanda su cui la Corte di merito avrebbe omesso di pronunciare; dovendosi sottolineare che la domanda di differenze retributive derivanti da superiore inquadramento e svolgimento di lavoro full time e la domanda di pagamento delle differenze retributive per la prestazione resa in conformità al contratto part time e all’inferiore inquadramento poggiamo su cause petendi differenti, il che impedisce di qualificare la seconda domanda come mera “riduzione del petitum originario” (v. ricorso per cassazione, p. 6, secondo cpv.) sul presupposto della identità della causa petendi.

    14. Per le ragioni esposte il ricorso va dichiarato inammissibile.

    15. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

    16. Il rigetto dei ricorsi costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

     

    P.Q.M.

     

    Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

    Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.

 

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