Il sito web dello Studio Boschi utilizza i cookie per offrire una migliore esperienza di navigazione e per fini statistici anonimizzati. Consulta l'informativa sulla privacy oppure continua la navigazione del sito cliccando sul bottone OK qui a fianco.

Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 15/05/2024

    Lavoro - Demansionamento - Reintegro precedenti mansioni - Illecito permanente - Accoglimento parziale

     

    Svolgimento del processo

     

    1.- A.D., dipendente di B.T. spa (già N.C.R.C. spa) dal 1992, da ultimo con qualifica di quadro direttivo di secondo livello, dal 2004 era stata assegnata al “servizio crediti” presso la direzione generale della banca, sede centrale e dall’01/12/2011 aveva ricoperto l’incarico di “responsabile dell’ufficio segreteria fidi”.

    Con lettera del 04/12/2013 era stata trasferita alla succursale della banca di Francavilla al Mare (sede periferica) dapprima con l’incarico di “vice reggente” della filiale e poi, da maggio 2014, di “responsabile operativo”.

    Adìva il Tribunale di Chieti per ottenere l’accertamento del demansionamento realizzato dalla banca mediante il predetto trasferimento, il conseguente ordine di essere reintegrata nelle precedenti mansioni di “responsabile dell’ufficio segreteria fidi” presso la sede centrale della banca e la condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni.

    2.- Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale, senza alcuna attività istruttoria, accoglieva le domande, ordinava alla banca la reintegra della ricorrente nelle mansioni svolte fino a dicembre 2013 o in mansioni equivalenti e la condannava al risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che liquidava in euro 87.587,00, pari al 50% della retribuzione globale di fatto mensile percepita dalla ricorrente a dicembre 2013 (pari alla somma di euro 4.170,81) moltiplicata per il numero dei mesi (42) intercorrenti da dicembre 2013 alla data della sentenza (giugno 2017).

    3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla banca e in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la banca al risarcimento dei danni da dequalificazione professionale che liquidava in euro 39.622,70, pari al 50% della retribuzione globale di fatto percepita per l’effettivo periodo di demansionamento da dicembre 2013 a giugno 2015 (pari a 19 mesi), rigettava la domanda di reintegrazione nelle precedenti mansioni e compensava le spese di entrambi i gradi di giudizio.

    A sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

    a) ai fini dell’equivalenza delle mansioni non basta il pari valore professionale delle mansioni poste a confronto, considerate nella loro oggettività, ma è necessario valutare anche l’attitudine della nuova posizione a consentire la piena utilizzazione o l’arricchimento del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto di lavoro (Cass. n. 18984/2003);

    b) le mansioni da comparare non sono in contestazione fra le parti nel loro accadimento storico e comunque sono ampiamente provate con i documenti da 5 a 28 depositati in primo grado dalla lavoratrice;

    c) la banca, lamentandosi della mancata ammissione della prova circa l’assenza di complessità e la natura meramente esecutiva delle mansioni svolte fino a dicembre 2013 presso la segreteria fidi, finisce per ammettere che quei compiti sono stati effettivamente disimpegnati dalla lavoratrice, avendone contestato soltanto la complessità;

    d) inoltre la prova testimoniale richiesta ha ad oggetto circostanze per lo più di natura documentale oppure di natura valutativa e come tale non demandabile a testimoni;

    e) dalla lettura degli organigrammi prodotti emerge che il “servizio crediti” opera a diretto contatto con la direzione generale (e con gli altri servizi da questa dipendenti) con compiti direttamente incidenti sull’andamento di un settore nevralgico della banca come la gestione del credito, mentre la sede di Francavilla al Mare costituisce una mera articolazione periferica;

    f) inoltre, la lavoratrice ha sempre svolto mansioni all’interno del “servizio crediti” dal 2004 al 2013 e quindi ha maturato una pluriennale esperienza professionale in detto settore, maturando un corredo di nozioni, abilità ed esperienze che non sono proficuamente utilizzabili nell’ambito delle nuove mansioni di vice reggente / responsabile operativo di una sede periferica;

    g) ancora, l’esercizio dello ius variandi non trova spiegazione nel nuovo modello organizzativo addotto dalla banca, teso a valorizzare le sedi periferiche (c.d. progetto succursali), atteso che il trasferimento della lavoratrice è avvenuto con lettera del 04/12/2013, mentre l’approvazione del nuovo progetto da parte del Cda della banca è avvenuta con delibera del 19/12/2013, quindi in un momento successivo, tanto è vero che nella lettera di trasferimento non si fa cenno alcuno al predetto progetto;

    h) in conclusione, quel trasferimento ha comportato non solo un radicale mutamento delle condizioni lavorative (sede di lavoro, collocazione organica etc.) ma anche l’inevitabile dispersione del patrimonio professionale precedentemente acquisito;

    i) quindi si è determinato un evidente pregiudizio alla professionalità, a nulla rilevando la dedotta fungibilità delle mansioni demandabili ai quadri direttivi, ai sensi degli artt. 82 e 83 ccnl 19/01/2012 per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti da imprese creditizie, perché ciò che rileva non è l’equivalenza formale delle mansioni, quanto la concreta dispersione del corredo di nozioni, abilità ed esperienze che la lavoratrice aveva acquisito nella fase pregressa del rapporto;

    j) è invece parzialmente fondato il secondo motivo, con cui la banca sostiene che il demansionamento è un illecito permanente quindi di durata, con conseguente applicabilità della nuova disciplina dell’art. 2103 c.c. introdotto dal d.lgs. n. 81/2015, laddove il Tribunale ne aveva escluso l’applicazione sostenendo che il provvedimento di assegnazione delle nuove mansioni era stato adottato in data 04/12/2013 quindi prima dell’entrata in vigore della novella;

    k) il fatto generatore del diritto (ossia il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente e non contenendo il d.lgs. n. 81/2015 alcuna norma retroattiva né di diritto intertemporale, deve ritenersi che fino all’entrata in vigore di tale novella trovi applicazione il testo originario dell’art. 2103 c.c.;

    l) tuttavia è pur vero che il demansionamento è un illecito permanente, nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente è mantenuto a svolgere mansioni inferiori, sicché la valutazione della liceità o meno della condotta va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno, con l’ulteriore conseguenza per cui l’assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento può non esserlo più in un momento successivo;

    m) ne consegue l’infondatezza delle doglianze della lavoratrice per il periodo successivo all’entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015 (24/06/2015), atteso che le nuove mansioni sono comunque riconducibili al livello di inquadramento di appartenenza, sicché non può essere disposta la reintegrazione nelle mansioni svolte fino a dicembre 2013, perché ormai le successive sono da ritenere lecitamente assegnate da giugno 2015;

    n) parzialmente fondato è anche il motivo d’appello con cui la banca si lamenta del riconoscimento del danno patrimoniale in difetto di allegazione e di prova del pregiudizio asseritamente patito;

    o) in diritto non può condividersi l’affermazione della banca, secondo cui per il risarcimento del danno da demansionamento occorre fornire la prova di uno specifico danno alla professionalità di natura patrimoniale, atteso che la sussistenza di tale danno può essere affermata anche in mancanza di prova di uno specifico pregiudizio di natura patrimoniale;

    p) il demansionamento, infatti, costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza per cui al pregiudizio correlato a tale lesione va riconosciuta una dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento in via equitativa (Cass. n. 7980/2004; Cass. n. 10157/2004);

    q) sul piano equitativo è possibile ricorrere ad una percentuale della retribuzione mensile per il periodo di demansionamento, quale parametro più idoneo del livello di professionalità e di immagine professionale raggiunti e rimasti pregiudicati (Cass. n. 12253/2015), atteso che lo svolgimento di mansioni dequalificanti determina un danno di immagine professionale e di perdita di chances di progressione nella carriera, da valutare in via equitativa a prescindere dalla prova dell’esistenza di un pregiudizio patrimoniale in termini di lucro cessante o danno emergente;

    r) a tali fini gli elementi da considerare sono la non breve durata del demansionamento, la gravità del demansionamento, tenuto conto della dispersione del patrimonio professionale maturato, la visibilità del demansionamento nell’azienda, la considerevole anzianità della dipendente (assunta nel 1992);

    s) ne consegue che il criterio di liquidazione adoperato dal Tribunale può essere condiviso.

    4.- Avverso tale sentenza D.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

    5.- U.B.I. spa (incorporante B.T. spa, già N.C.R.C. spa) ha resistito con controricorso ed a sua volta ha proposto ricorso incidentale, affidato a tre motivi.

    6.- La D. ha resistito al ricorso incidentale con controricorso.

    7.- In prossimità dell’adunanza camerale del 10/05/2023 la ricorrente principale ha depositato memoria.

    8.- Nell’adunanza camerale del 10/05/2023 la Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza.

    9.- Il P.G. (Avvocato Generale dott.ssa R.S.) ha depositato memoria e conclusioni scritte.

    10.- La ricorrente ha depositato nuova memoria.

     

    Motivi della decisione

     

    RICORSO PRINCIPALE

    1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, e dell’art. 11 disp.prel.c.c. per avere la Corte territoriale qualificato il demansionamento come “illecito permanente”.

    Assume che invece trattasi di “illecito istantaneo sia pure con effetti permanenti”, sicché la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 81/2015 non trova applicazione, atteso che l’atto datoriale illecito è quello del 04/12/2013 e a quella data non era ancora entrata in vigore la novella dell’art. 2103 c.c. da parte del d.lgs. n. 81 cit.

    Precisa che l’illecito è istantaneo nel momento in cui vi è un unico fatto generatore, che una volta verificatosi produce effetti dannosi, i quali poi possono consumarsi uno actu oppure permangono nel tempo; l’illecito è invece permanente quando la condotta violativa della legge si riproduce nel tempo con successive azioni/omissioni che reiterano di volta in volta l’illecito sotto il profilo soggettivo ed oggettivo.

    Lamenta che l’errata qualificazione del demansionamento come “illecito permanente” ha avuto come conseguenza l’applicazione retroattiva della novella dell’art. 2103 c.c., in violazione dell’art. 11 disp.prel.c.c.

    Il motivo è infondato.

    In tema di demansionamento questa Corte ha già affermato in plurime occasioni che il comportamento datoriale dà luogo ad un illecito permanente (Cass. ord. n. 31558/2021; Cass. ord. n. 15814/2020; Cass. n. 9318/2018; Cass. n. 17579/2013; Cass. n. 1141/2007).

    Anche in altri settori ordinamentali, e in particolare in tema di illecito amministrativo, questa Corte ha ritenuto configurabile un illecito permanente in tutti i casi in cui la durata dell’offesa è correlata – sul piano eziologico – al permanere della condotta colpevole dell’agente; si configura invece l’illecito istantaneo ad effetti permanenti quando perdurano nel tempo solo le conseguenze della violazione, pur quando sia già cessata la condotta illecita (Cass. ord. n. 16001/2020).

    Analoghe considerazioni si rinvengono in tema di illecito penale (Cass. n. 37114/2023), per il quale si è posto l’accento sulla continuità dell'offesa arrecata dalla condotta volontaria dell'agente, che ha la possibilità di far cessare in ogni momento l’offesa medesima (Cass. pen. n. 42565/2019; Cass. pen. n. 29657/2019).

    Anche in tema di illecito civile (in materia condominiale) questa Corte ha evidenziato che la situazione illecita determinata dall’alterazione dello stato dei luoghi, da cui siano derivati danni, ha natura di illecito permanente, che cessa solo quando venga tenuta una condotta (contrarius actus) volta a rimuovere quell’alterazione e, dunque, quella situazione illecita (Cass. n. 25835/2023).

    Pertanto deve ritenersi che l’illecito è permanente quando la situazione illecita viene instaurata dalla condotta iniziale, a cui si accompagna il mantenimento della medesima situazione, di fatto e/o di diritto, sicché per la cessazione dell’offesa agli interessi tutelati è necessaria un’ulteriore condotta, contraria alla precedente, idonea a rimuovere la predetta situazione.

    Ciò è proprio quanto accade in tema di demansionamento: l’adibizione a mansioni tali da violare l’art. 2103 c.c. determina una situazione illecita (e pregiudizievole per il diritto alla professionalità del dipendente), che può venire meno solo se e quando il datore di lavoro, esercitando nuovamente il suo ius variandi, adibisca il dipendente a mansioni che rispettino i limiti posti dal legislatore. Se invece tale riedizione del potere non si verifica, la situazione antigiuridica permane per una scelta propria e volontaria del datore di lavoro. Dunque si è al cospetto di un illecito permanente, come esattamente ritenuto dai giudici d’appello.

    In conclusione, in tutte le branche del nostro ordinamento l’illecito permanente è quello in cui l’offesa arrecata al diritto o all’interesse protetto si protrae nel tempo per effetto della persistente condotta volontaria. Tale è il caso dell’adibizione a mansioni inferiori. Infatti, lo stesso concetto di “adibizione” implica l’esercizio di un potere che si protrae nel tempo, perché si traduce in un’assegnazione di determinate mansioni nell’ambito di un rapporto giuridico di durata (quello di lavoro subordinato) e nel loro mantenimento, sicché il destinatario di quell’assegnazione è obbligato a svolgerle giorno dopo giorno fino a quando non intervenga un nuovo atto di esercizio di ius variandi, ossia fino a quando non intervenga un nuovo atto di “adibizione”, che – in ipotesi – faccia cessare la situazione illecita mediante l’assegnazione di mansioni consone. Quindi quell’atto originario di ius variandi instaura una situazione, di fatto e di diritto, naturalmente destinata a protrarsi nel tempo e che si protrae proprio in virtù di una scelta volontaria del datore di lavoro.

    Contrariamente all’assunto della ricorrente, a nulla rileva che l’atto datoriale che instaura la situazione antigiuridica sia uno, atteso che quello è solo l’atto iniziale che appunto ha la funzione di instaurare la situazione antigiuridica. Resta fermo che la condotta datoriale illecita non si esaurisce con quell’atto, ma si protrae con il volontario mantenimento di quell’adibizione giorno per giorno, fino a quando tale protrazione non cessi con un nuovo atto di adibizione ad altre mansioni.

    Quindi esattamente la Corte d’Appello ha qualificato il demansionamento come “illecito permanente”.

    Ne consegue che, per la frazione di condotta tenuta sotto la vigenza della nuova norma (introdotta dal d.lgs. n. 81/2015), questa trova applicazione, dunque ex nunc (dal 24/06/2015) senza alcuna violazione del principio di irretroattività posto dall’art. 11 disp.prel.c.c.

    Pertanto, qualora le nuove mansioni non fossero più qualificabili come “inferiori” alla luce della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., effettivamente quella condotta, ancora perdurante, perderebbe il suo connotato di illiceità. Infatti con il d.lgs. n. 81/2015 il legislatore non si è limitato a disciplinare gli “effetti” dello ius variandi, ma ha dettato una nuova regolamentazione dell’esercizio di questo potere datoriale, quindi una nuova disciplina della “fattispecie”, integrata dalla volontaria decisione datoriale di mutare l’oggetto della prestazione lavorativa (e quindi del contratto) e di mantenere mutato così l’oggetto.

    2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. (in senso logicamente subordinato al rigetto del primo), la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2103 c.c. (come modificato dall’art. 3 d.lgs. n. 81/2015), 82, 83 e 93 ccnl 19/01/2012.

    In particolare, il motivo è articolato in due censure:

    a) si addebita alla Corte territoriale di avere omesso di considerare che il ccnl non prevede l’articolazione della categoria legale di quadro in livelli differenziati, sicché la nuova norma – che introduce un principio di fungibilità delle mansioni valutata ex ante dal legislatore – non sarebbe applicabile;

    b) si addebita alla Corte territoriale di aver ritenuto che le nuove mansioni rientrassero nel livello dei quadri direttivi come disciplinato dal ccnl citato, laddove esse, in quanto meramente esecutive, erano invece proprie di un impiegato di 3^ area professionale, a tutto concedere inquadrabile nel 4^ livello retributivo ccnl, e non certo di un quadro direttivo. Assume di aver articolato tali deduzioni nella memoria difensiva d’appello, da pag. 32 a pag. 37.

    La censura sub a) è infondata.

    L’art. 2103 c.c., nella nuova formulazione introdotta dall’art. 3 d.lgs. n. 81/2015, ai suoi primi due commi dispone: “1. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. – 2. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.

    Secondo la ricorrente, qualora il ccnl non preveda l’articolazione della categoria legale in livelli differenziati, la nuova norma – che introduce un principio di fungibilità delle mansioni valutata ex ante dal legislatore – non sarebbe applicabile (v. ricorso per cassazione, p. 19).

    Questa tesi non può essere condivisa.

    La ratio della norma è quella di individuare e regolare i limiti all’esercizio del potere unilaterale del datore di lavoro di ius variandi rispetto alle mansioni di assunzione o alle ultime svolte. Sulla base di tale funzione, il legislatore stabilisce un principio di fungibilità delle mansioni che siano riconducibili “allo stesso livello e categoria legale”. L’uso della congiunzione “e” sta solo a significare che, qualora il ccnl articoli una medesima categoria legale in più livelli, lo ius variandi è legittimamente esercitato ai sensi del co. 1 solo se le nuove mansioni appartengano, oltre che alla medesima categoria legale, anche allo stesso livello professionale di quelle precedenti.

    Ciò significa che, qualora il ccnl invece non preveda più livelli professionali, ma si limiti solo a prevedere diversi livelli economici differenziati per anzianità o sulla base di criteri diversi dalla tipologia di mansioni svolte, il potere in esame sarà ugualmente esercitabile, a condizione (ovviamente) che le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale. Dunque, contrariamente all’assunto della ricorrente, la presenza di un’articolazione dell’inquadramento in più livelli contrattuali, di natura professionale, nell’ambito della medesima categoria legale non costituisce necessario presupposto per l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. nella sua nuova formulazione.

    La conferma di questa conclusione si trae proprio dal comma 2 dell’art. 2103 cit., nel quale è previsto che le mansioni “inferiori” – per le quali è necessaria la deduzione e la prova della giustificazione fondata sulla modifica di assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore – sono quelle appartenenti ad un livello (di inquadramento) inferiore pur sempre rientrante nella medesima categoria legale.

    La censura sub b) è fondata.

    Effettivamente nella sentenza impugnata non vi è traccia dell’analisi e dell’applicazione delle clausole rilevanti del contratto collettivo previo accertamento dei relativi presupposti in fatto e in diritto. In particolare la Corte territoriale ha omesso di considerare che:

    - ai sensi dell’art. 82 ccnl applicabile, l’inquadramento nella categoria dei quadri direttivi spetta ai “preposti a succursale, comunque denominate, che .in una complessiva valutazione dell'assetto organizzativo dell'impresa - svolgono, con significativi gradi di autonomia e responsabilità funzionale, avuto anche riguardo alla tipologia della clientela, compiti di rappresentanza dell'impresa nei confronti dei terzi nell'ambito dei poteri conferiti dall'impresa stessa, per quanto concerne le condizioni e l'erogazione dei crediti, la gestione dei prodotti e dei servizi, coordinando le risorse umane e tecniche affidate e rispondendo dei risultati dell'unità operativa in rapporto agli obiettivi definiti dall'impresa medesima”;

    - ai sensi dell’art. 93 ccnl applicabile, il quarto livello della terza area professionale spetta agli impiegati “preposti … ad una struttura operativa autonoma (Ufficio, servizio …) cui siano stabilmente addetti almeno otto elementi oltre il titolare”.

    Quindi i giudici d’appello non hanno verificato se l’adibizione a mansioni diverse, dapprima di “vice reggente”, poi di “responsabile operativo” della succursale di Francavilla al Mare, fosse riconducibile all’inquadramento nella categoria dei quadri, oppure nella terza area professionale, mediante il necessario raffronto con le relative declaratorie. Questa operazione è invece necessaria, in quanto laddove riconducibili alla terza area professionale, propria della categoria impiegatizia e non dei quadri, si dovrebbe concludere per l’illegittimità delle nuove mansioni anche dopo il 24/06/2015, ossia pure alla luce della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. introdotta dall’art. 3 d.lgs. n. 81 cit..

    In definitiva, la Corte d’appello ha mancato di accertare la sussunzione delle nuove mansioni nella categoria dei quadri direttivi ai sensi del ccnl piuttosto che in quella impiegatizia, avendo dato per scontato che fossero riconducibili alla categoria di quadro senza darne alcuna motivazione (come lamenta la ricorrente: v. ricorso per cassazione, p. 25) ed anzi in palese contraddizione con quanto poco prima affermato, ossia che “presso la nuova sede la D. si è pacificamente occupata di compiti operativi tipici della ordinaria gestione amministrativa di una articolazione periferica …” (v. sentenza impugnata, p. 5, 3^ cpv.).

    3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di rilevare che il ccnl di settore, in relazione ai quadri direttivi, non prevede un’articolazione in livelli, ciascuno con diversi profili professionali e mansioni, tutti parimenti esigibili fra loro. Assume che, in presenza di questa struttura del ccnl, la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. è inapplicabile, perché presuppone la sussistenza di un’articolazione di una medesima categoria legale di inquadramento in più livelli, nella specie insussistente.

    Il motivo è assorbito dalle considerazioni sopra svolte in relazione al secondo motivo.

    RICORSO INCIDENTALE

    1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta “violazione o falsa applicazione” degli artt. 2103 e 2697 c.c., nonché dell’art. 115, co. 1, c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto illegittimo l’atto datoriale del 04/12/2013 di adibizione della lavoratrice alle mansioni di vice reggente e poi di responsabile operativo della filiale di Francavilla al Mare, erroneamente ritenute non equivalenti a quelle da ultimo svolte, sulla base dell’errato presupposto della non contestazione dei fatti addotti dalla lavoratrice.

    Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere omesso di rilevare che la contestazione dei fatti addotti dalla lavoratrice era stata sollevata, ad esempio nella memoria autorizzata del 10/03/2017.

    I due motivi – da esaminare congiuntamente per la loro connessione – sono inammissibili.

    Essi sollecitano, infatti, a questa Corte un diverso apprezzamento degli atti difensivi, attività che invece è riservata al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità qualora – come nella specie – adeguatamente motivata.

    A questo riguardo la Corte territoriale ha specificamente affermato che “non vi è contestazione dello svolgimento dei compiti descritti sotto il profilo del mero accadimento storico” e che “l’appellante … non ha fatto altro che ammettere implicitamente che tutti i compiti analiticamente descritti nella sentenza impugnata sono stati effettivamente disimpegnati dalla D. (essendone contestata solo la “complessità”) …” (v. sentenza impugnata, p. 4).

    Ciò significa che solo per la veridicità storica delle mansioni la Corte territoriale ha fatto applicazione del principio di non contestazione. Con riguardo alla loro complessità i giudici d’appello hanno poi articolato e sviluppato una motivazione differente, fondata su elementi probatori diversi e molteplici (v. sentenza impugnata, pp. 4-5), ritenuti sufficienti per la decisione e, quindi, tali da consentire di non dar corso alle istanze istruttorie di ammissione delle prove testimoniali, dichiarate irrilevanti (in quanto relative a circostanze già documentate) o inammissibili (in quanto relative a capitoli di prova contenenti valutazioni – interdette ai testimoni – sul grado di complessità e di importanza delle mansioni svolte dalla lavoratrice).

    2.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2103 c.c. come modificato dall’art. 3 d.lgs. n. 81/2015, per avere la Corte territoriale da un lato ammessa l’applicabilità della nuova disciplina che non impone più il criterio dell’equivalenza, dall’altro concluso nel senso che le nuove mansioni assegnate alla dipendente fossero dequalificanti.

    Il motivo è inammissibile, perché non si confronta con la specifica motivazione articolata dalla Corte territoriale circa il diverso criterio di giudizio introdotto dalla novella del 2015, in conseguenza del quale ciò che prima era un illegittimo esercizio dello ius variandi era diventato legittimo.

    Ne deriva che è conforme a diritto la sentenza d’appello, nella quale è stato compiuto un duplice giudizio di conformità del mutamento di mansioni rispetto ai due diversi parametri normativi vigenti ratione temporis.

     

    P.Q.M.

     

    Rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo e dichiara assorbito il terzo; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello de L’Aquila, in diversa composizione, per la decisione del merito in relazione al motivo accolto, limitatamente al periodo successivo al 24/06/2015, e per la regolazione delle spese processuali dei gradi di giudizio, nonché di quelle del giudizio di legittimità.

    Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso incidentale a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.

 

Made in DataLabor.Com