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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 24/04/2024

    Lavoro - Licenziamento - Comunicazione Unilav - Contratto di fitto di ramo d’azienda - Inammissibilità

     

    Rilevato che

     

    1. la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di prime cure che aveva respinto il ricorso proposto da S.P. nei confronti di M.U. Srl volto a far dichiarare “la nullità e/o l’annullabilità e/o l’inefficacia e comunque l’illegittimità del licenziamento adottato dalla M. Srl nei confronti della Sig.ra S.P., con comunicazione Unilav di cessazione del rapporto di lavoro del 14.7.2017” nonché “la illegittima cessione del contratto di lavoro, stante l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 2112 c.c. per l’inesistenza del requisito del ramo d’azienda”;

    2. la Corte territoriale – in estrema sintesi – ha innanzitutto esaminato la comunicazione UNILAV della M., ritenendo che la stessa presupponesse chiaramente “il contratto di fitto di ramo d’azienda con la società <L’Abbondanza del pane> e non la volontà di licenziare la lavoratrice”, quale comunicazione rivolta agli organi competenti, non potendo essere riconosciuta alla medesima “il valore univoco di una comunicazione di licenziamento”;

    la Corte ha poi ritenuto, sulla base degli elementi istruttori acquisiti, la sussistenza di un “legittimo […] fitto di ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 c.p.c. (ndr art. 2112 c.c.);

    3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con due motivi; non ha svolto attività difensiva la società intimata;

    all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

     

    Considerato che

     

    1. con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione di norma di diritto con riferimento “all’art. 4-bis del d. lgs. n. 181 del 2000 e della normativa attuativa specificamente il decreto ministeriale 30 ottobre 2007”, sostenendo che la sentenza impugnata sarebbe “erronea nella parte in cui ha ritenuto che l’invio da parte della M. Srl del modello Unilav con la causale della cessazione del rapporto riferita alla casella <altro> non integri una cessazione del rapporto di lavoro e non si ponga quindi in contrasto con l’asserita continuità del rapporto di lavoro”;

    inoltre si deduce la violazione della disciplina a tutela della materntà;

    la censura è inammissibile;

    infatti, si denuncia nelle forme dell’errore di diritto, che presuppone una ricostruzione della vicenda storica incontestata, una valutazione di merito, qual è certamente l’idoneità di un certo documento, quanto a contenuti e destinatari, ad integrare o meno un atto di licenziamento;

    esclusa la sussistenza di un licenziamento perde di rilievo ogni questione in ordine alla pretesa violazione della disciplina a tutela della maternità;

    2. con il secondo motivo di ricorso si denuncia: “Violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. per inesistenza del requisito della preesistenza del ramo – Operatività della regola generale di cui all’art. 1406 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in combinato disposto con gli artt. 115 e 116 c.p.c.”; si critica la sentenza impugnata per aver ritenuto provata la “esistenza di tutti i requisiti che condizionano l’operatività del fenomeno circolatorio di cui all’art. 2112 c.c.”;

    anche tale censura è inammissibile atteso che: “In tema di trasferimento di ramo d'azienda, la verifica della sussistenza dei presupposti dell'autonomia funzionale e della preesistenza, rilevanti ai sensi dell'art. 2112, comma 5, c.c., integra un accertamento di fatto riservato al giudice di merito” (in termini; Cass. n. 7364 del 2021);

    conclama la pretesa ad una rivalutazione di merito l’improprio riferimento alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che dell’art. 2697 c.c.;

    come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);

    parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell'art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca – come nella specie - che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014; infine, la violazione dell'art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa l’esistenza di un trasferimento di ramo d’azienda, opponendo una diversa valutazione;

    3. pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; nulla per le spese in difetto di attività difensiva dell’intimata;

    occorre, invece, dare atto della sussistenza per il ricorrente dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

     

    P.Q.M.

     

    Dichiara inammissibile il ricorso; nulla per le spese.

    Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

 

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