Il sito web dello Studio Boschi utilizza i cookie per offrire una migliore esperienza di navigazione e per fini statistici anonimizzati. Consulta l'informativa sulla privacy oppure continua la navigazione del sito cliccando sul bottone OK qui a fianco.

Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 29/03/2024

    Lavoro - Procedura di riduzione del personale - Licenziamento collettivo - Omessa comunicazione alla Commissione regionale indicata dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9 - Collegamento causale tra il licenziamento intimato e la prospettata riorganizzazione aziendale - Rigetto 

     

    Fatti di causa

     

    1. Con sentenza n. 8157/2013, la Corte d’appello di Napoli respinse l’appello proposto dal B.N. s.p.a. contro la sentenza n. 29403/2011 del Tribunale della medesima sede, che, nell’accogliere il ricorso del lavoratore d’impugnativa del recesso intimatogli il 23.8.2008 all’esito di una procedura di riduzione del personale ex L. 223/1001 (ndr L. 223/1991) percorsa dal B.N., aveva dichiarato l’inefficacia di tale licenziamento per l’omesso invio della comunicazione ex art. 4, comma 9, dell’ora cit. legge alla Commissione regionale per l’impiego ed aveva condannato la società convenuta alla reintegra nel posto di lavoro e al pagamento, in favore dell’attore, di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto pari ad euro 2.904,97 dalla data del licenziamento alla reintegra, nonché al versamento dei contributi relativi, oltre interessi e rivalutazione.

    2. Con sentenza n. 4269/2017, questa Corte Suprema accolse il ricorso per cassazione proposto dal B.N. s.p.a. avverso la suddetta decisione “nei sensi di cui in motivazione”, cassò la sentenza impugnata e rinviò anche per il regolamento delle spese alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.

    2.1. In particolare, si ritenne che in materia di licenziamento collettivo “non può essere dichiarata l’inefficacia del licenziamento laddove, nell’ambito di una procedura svoltasi in modo corretto ed adeguato alla finalità cui è preordinata per legge, risulti omessa esclusivamente la comunicazione alla Commissione regionale indicata dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9 – che, in base all’art. 6 della stessa legge, svolge il compito di approvare le liste di mobilità – ed il licenziamento collettivo sia stato disposto, per riduzione del personale, da parte di una impresa non rientrante nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale, i cui dipendenti, quindi, non possono beneficiare dell’indennità di mobilità”.

    2.2. Nel disporre il rinvio, questa Corte specificò che la Corte territoriale “si atterrà al principio di diritto sopra richiamato, procedendo, ove riproposte, all’esame delle questioni già ritenute assorbite nella conferma della pronuncia di primo grado”.

    3. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Napoli in sede di rinvio, ha accolto l’appello a suo tempo proposto dal B.N. s.p.a., rigettando per l’effetto la domanda proposta dal lavoratore in primo grado, e compensando interamente tra le parti le spese del primo giudizio d’appello, del giudizio di cassazione e del giudizio di rinvio.

    3.1. La stessa Corte, richiamata la pregressa vicenda processuale, precisati in generale i limiti del giudizio di rinvio e riportato quanto statuito da questa Corte di Cassazione nella sentenza n. 4269/2017, riepilogava analiticamente i sei motivi di doglianza proposti dal lavoratore nel suo “ricorso in riassunzione”.

    3.2. Riteneva quindi che la doglianza del lavoratore di cui al punto 1), ossia, quella circa la “non contestualità” tra le comunicazioni ex art. 4, comma 9, L. 223/1991 ed il licenziamento, era “inammissibile in quanto non sollevata nei precedenti gradi del giudizio, non essendovi alcuna concreta deduzione, nel ricorso di primo grado, in ordine all’asserito difetto di “contestualità” nel caso di specie, ma solo una generica affermazione della possibilità di sanatoria del vizio di comunicazione “salvo il requisito della <contestualità> fra singoli licenziamenti e comunicazione agli Enti”, illustrando poi diffusamente tale sua valutazione.

    3.3. Considerava, poi, che “Anche la doglianza di cui al punto 2) – omesso invio delle comunicazioni ex lege 223/1991 ad altri soggetti previsti dalla legge – presenta analoghi profili di inammissibilità siccome formulata tardivamente e solo in sede di gravame” e che “In ogni caso, la stessa è priva di fondamento proprio alla luce della sentenza rescindente”, per le ragioni a riguardo esposte.

    3.4. Nell’esaminare congiuntamente le ulteriori censure di cui ai punti 3, 4, 5 e 6 in precedenza elencati dalla Corte, per quanto qui ancora interessa, reputava infondata quella sub 3), a mezzo della quale l’originario ricorrente sosteneva l’assenza di collegamento causale tra il licenziamento e la prospettata riorganizzazione aziendale, evidenziando che, al momento del licenziamento, gli obiettivi prefissati (riduzione degli esuberi e tagli dei costi) erano già stati raggiunti.

    3.5. Sempre per quello che può rilevare in questa sede, riteneva infondata anche la deduzione sub 4), circa l’asserita inapplicabilità della legge 223/1991 al ricorrente in quanto dipendente di istituto di credito pubblico.

    3.6. Dopo ulteriori considerazioni, la Corte del rinvio concludeva che l’appello principale promosso dal B.N., conformemente all’orientamento giurisprudenziale di legittimità e di merito delineatosi in base alle molteplici pronunce esibite in giudizio, doveva essere accolto e che la sentenza di prime cure doveva essere riformata, con conseguente integrale rigetto della domanda formulata in prime cure dal lavoratore.

    4. Avverso tale decisione, A.S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

    5. L’intimata I.S.P. s.p.a. (la quale nelle more aveva incorporato B.N. s.p.a.) ha resistito con controricorso.

    6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

     

    Ragioni della decisione

     

    1. Con un primo motivo, il ricorrente denuncia la “Violazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c. dell’art. 4, comma 9, L. 223/1991 con riguardo all’assenza di contestualità nell’invio delle singole lettere di licenziamento e la comunicazione di cui alla richiamata norma”. Riportata la parte di motivazione (tra la quarta e la quinta facciata) dell’impugnata sentenza oggetto di censura, sostiene che la Corte d’appello di Napoli “è caduta in un grave errore nel ritenere inammissibile l’eccezione di difetto di contestualità tra la comunicazione agli organi pubblici e alle organizzazioni sindacali e quella di recesso”.

    2. Con un secondo motivo denuncia la “nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 e 5 c.p.c. con riferimento alla violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4 c.p.c. –Motivazione apparente”. Premette il ricorrente che, sin dal ricorso introduttivo di primo grado come in quello d’appello, nonché da ultimo nel ricorso in riassunzione, egli aveva lamentato che il proprio licenziamento fosse illegittimo per la ritenuta assenza di nesso causale con il progettato ridimensionamento aziendale dichiarato dalla banca. Deduce in sintesi che la Corte d’appello di Napoli, pur individuando correttamente il petitum e la causa petendi di tale doglianza, aveva incomprensibilmente statuito a riguardo. In particolare, aveva fondato il proprio convincimento su principi di diritto ed asserzioni che nulla avevano a che vedere con la censura formulata dal ricorrente. Secondo quest’ultimo, la sentenza impugnata non esplicita in maniera logica e comprensibile le ragioni giuridiche poste a base della decisione, con ciò risultando in aperto contrasto con il disposto dell’art. 132, comma 1, n. 4 del c.p.c.

    3. Con un terzo motivo denuncia la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, co. 1 e 2, L. 218/90 in relazione inapplicabilità della L. 223/91 al personale ex dipendente di istituto di credito di diritto pubblico”. Riportata la parte di motivazione censurata a riguardo, il ricorrente, in estrema sintesi, deduce che la norma posta dall’art. 3, commi 1 e 2, L. n. 218/1990 è chiarissima nel prevedere che, per le materie oggetto di contrattazione collettiva, le disposizioni vigenti alla privatizzazione si sarebbero applicate sino al rinnovo del contratto, mentre sarebbero rimasti salvi in via definitiva i diritti quesiti, gli effetti di leggi speciali e quelli derivanti dalla originaria natura pubblica dell’ente; e il secondo comma del cit. art. 3 fa quindi salvi sia i diritti quesiti (del resto meritevoli di tutela per loro natura) sia le aspettative di tutela perché connesse alla natura pubblicistica dell’ente al momento della privatizzazione. Egli, pertanto, aveva certamente diritto al trattamento di miglior favore prescritto dalla disciplina pubblicistica anche se la fattispecie perfezionatrice del diritto (consistente nell’esubero di personale rilevante ai sensi degli artt. 72 e ss. del d.P.R. n. 3 del 1957) si era verificata successivamente alla privatizzazione.

    4. Il primo motivo è inammissibile nei termini formulati.

    5. Rileva, infatti, il Collegio che tale censura è esplicitamente ed esclusivamente formulata ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c. in chiave di violazione di una sola norma di diritto (sostanziale), ossia, dell’art. 4, comma 9, L. 223/1991, con precipuo riferimento alla sostenuta “assenza di contestualità nell’invio delle singole lettere di licenziamento e la comunicazione di cui alla richiamata norma”.

    5.1. Come premesso in narrativa, tuttavia, e come riconosce lo stesso ricorrente, la Corte d’appello in sede di rinvio neppure s’è pronunciata nel merito, e segnatamente sul piano giuridico, di tale questione, bensì ha esplicitamente ritenuto inammissibile la relativa doglianza “in quanto non sollevata nei precedenti gradi di giudizio”; e la relativa motivazione è esclusivamente dedicata ad illustrare tale soluzione processuale, completandosi con l’affermazione che tale inammissibilità non “potrebbe essere superata invocando una rilevabilità d’ufficio” (cfr. in extenso pagg. 4-5 dell’impugnata sentenza).

    5.2. Del resto, lo stesso ricorrente, come già anticipato, assume appunto che la Corte del rinvio avrebbe commesso “un grave errore nel ritenere inammissibile l’eccezione” in questione. E in tal senso, riporta ampia parte del contenuto del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado (cfr. pagg. 6-9 del ricorso per cassazione), assumendo di aver “riproposto la questione anche nel giudizio di appello avverso la sentenza” del Tribunale, pure in questo caso trascrivendo parte del proprio appello incidentale condizionato a riguardo (cfr. pagg. 9-11 dello stesso atto).

    5.3. Assume, ancora, essere “evidente come il ricorrente abbia tempestivamente sollevato la violazione dell’art. 4, comma 9, l. cit. dal momento che sin dal primo grado di giudizio ha contestato l’omesso invio, evidentemente contestuale, delle comunicazioni di cui alla richiamata norma”, e che non v’era “alcuna ragione di considerare, come ha fatto la Corte d’Appello, le eccezioni di omesso invio tout court, e l’omesso invio contestuale, delle comunicazioni de quo, come due eccezioni distinte”, e che la questione della “contestualità” era “evidentemente connessa all’eccepito omesso invio della comunicazione” (cfr. pagg. 14-15 del ricorso in esame).

    6. Risulta, allora, evidente che tutte tali deduzioni svolte dal ricorrente attengono all’interpretazione del contenuto di determinati atti processuali di una parte, vale a dire, dell’attore stesso. Infatti, quest’ultimo - a fronte della considerazione e dell’interpretazione di quegli atti che non nega essere state esposte dai giudici di rinvio nella motivazione della propria sentenza, e dalle quali essi hanno desunto la “novità” della doglianza in sede di ricorso in riassunzione del lavoratore circa l’assenza di contestualità tra le comunicazioni ex art. 4, comma 9, L. n. 223/1991 ed i licenziamenti -, sostiene l’erroneità di tale interpretazione. E contrappone ad essa una diversa interpretazione dei propri atti, in base alla quale la censura in questione non risulterebbe nuova.

    7. D’altronde, è lo stesso ricorrente a sostenere che: “Se la Corte d’Appello avesse esaminato l’eccezione di difetto di contestualità avrebbe necessariamente accertato come le comunicazioni di cui all’art. 4, comma 9, cit., erano tutt’altro che contestuali con la conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento del ricorrente”.

    8. Resta, perciò, confermato che l’errore attribuito alla Corte di rinvio “nel ritenere inammissibile l’eccezione” in questione, riguardando l’interpretazione di atti processuali di parte (di regola rimessa al giudice di merito), non poteva certamente essere fatto valere in questa sede di legittimità in chiave di diretta violazione della norma di diritto che, secondo il ricorrente, doveva essere applicata in suo favore nel caso in cui detta doglianza fosse stata ritenuta ammissibile e quindi da esaminare nel merito.

    Al riguardo va ricordato che - non prospettandosi in questa sede una violazione dell’art. 112, né tantomeno una nullità della sentenza, bensì solo una violazione di legge sostanziale - l'interpretazione della domanda e l'individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, (Cass. del 21/12/2017, n. 30684; Cass. 18/05/2012, n. 7932).

    9. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

    9.1. La motivazione resa dalla Corte del rinvio sulla questione dell’assenza di collegamento causale tra il licenziamento intimato e la prospettata riorganizzazione aziendale non è affatto apparente, come invece assume il ricorrente.

    In particolare, la Corte ha fatto riferimento a riguardo a quanto considerato da questa Corte nelle sent. 11.6.2015, n. 12122 e n. 12588/2016, osservando che, “con l’accordo quadro dell’8 luglio 2008 citato le parti, richiamate le precedenti fasi della procedura e l’esito della verifica sui risultati conseguiti con le misure adottate a seguito del precedente accordo, evidenziarono l’insoddisfacente andamento della prevista riduzione strutturale del costo del lavoro ed hanno previsto che, per ricondurre lo stesso agli specifici obiettivi indicati nel Piano di impresa, “ciascuna azienda del gruppo concorrerà entro il 31 dicembre 2009, per quanto di propria competenza, alla riduzione degli organici nella misura complessivamente definita di 2500 unità”.

    Ha aggiunto la Corte che: “La posizione lavorativa di A., quindi, rientrava nelle 187 unità in esubero, individuate dall’accordo sindacale del 25 luglio 2008, e pertanto sussiste il nesso di causalità tra il suo licenziamento, disposto con decorrenza 30/9/08, e la procedura di licenziamento collettivo intrapresa, a nulla rilevando le argomentazione della parte circa il raggiungimento degli obiettivi aziendali dalla predetta data”.

    Con riferimento, poi, al criterio di scelta adottato, ossia, quello della c.d. pensionabilità), la Corte ha fatto proprie le considerazioni espresse da questa Corte di legittimità, in talune ulteriori decisioni che ha richiamato (v. in extenso facciate 9-11 della sua sentenza).

    9.2. E’ pertanto fuor di dubbio che tale motivazione, peraltro fondata sul richiamo, circa il medesimo tema, a diverse decisioni di legittimità, in gran parte specificamente riferite ad altri ricorsi per cassazione, ma riguardanti la medesima procedura di licenziamento collettivo, integra ampiamente gli estremi del c.d. “minimo costituzionale” (nei termini specificati in Cass. Sez. un. n. 8053/2014). Tale motivazione, inoltre, è riferita anche al profilo specifico, ossia, il sostenuto raggiungimento degli obiettivi prefissati, in base al quale il ricorrente in riassunzione aveva fatto valere la questione dell’assenza di collegamento causale tra il licenziamento a lui intimato e la prospettata riorganizzazione aziendale.

    10. Parimenti infondato è l’ultimo motivo di ricorso.

    10.1. La Corte del rinvio, nel giudicare priva di fondamento la doglianza circa l’asserita inapplicabilità della L. n. 223/1991 al ricorrente in quanto dipendente di istituto di credito pubblico, ha premesso che l’art. 3 L. 218/1990 prevedeva che il rapporto di lavoro dei dipendenti degli istituti di credito pubblico sarebbe stato disciplinato dalla normativa vigente alla data di entrata in vigore della legge medesima soltanto fino al “rinnovo del contratto collettivo nazionale di categoria o fino alla stipula di un nuovo contratto integrativo aziendale”. Ha, poi, considerato che, poiché, invece, nel caso di specie dopo il 1990 sono stati sicuramente stipulati nuovi contratti collettivi, doveva ritenersi applicabile la disciplina legale e convenzionale prevista per i rapporti di diritto privato.

    Neppure, poi, secondo la Corte, l’applicabilità al rapporto de quo della disciplina dell’impiego pubblico, poteva derivare dal dettato del secondo comma dell’art. 3 della cit. l. n. 218/1990, che fa salvi “i diritti quesiti, gli effetti di leggi speciali e quelli derivanti dalla originaria natura pubblica dell’ente di appartenenza”.

    Ha ritenuto, infatti, che l’ipotesi del diritto quesito non poteva configurarsi in relazione al licenziamento sino a quando il datore di lavoro non abbia manifestato la volontà di recedere dal rapporto di lavoro, e che soltanto i limiti al potere di recesso vigenti all’epoca di intimazione, quindi, non potranno essere modificati, laddove nel caso di specie si pretende di cristallizzare una mera aspettativa.

    In tal senso, la Corte di rinvio, oltre a propri precedenti, ha richiamato Cass. n. 29047/2017  e Cass. n. 24109/2016; pronunce entrambe relative sempre alla medesima procedura di licenziamento che qui viene in considerazione, attivata da B.N. s.p.a.

    10.2. Ebbene, Cass. n. 29047/2017, nel ritenere infondato un motivo di ricorso per cassazione analogo a quello in esame nel quale si lamentava la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 L. 218/1990, aveva confermato quanto già ritenuto da Cass. n. 24109/2016, e, cioè, che, nel caso di trasformazione di enti creditizi pubblici (nella specie, appunto il B.N.) in società per azioni, non può essere esclusa, ai sensi dell’art. 3, comma 2, L. n. 218/1990, l’applicabilità della disciplina sui licenziamenti di cui alla L. n. 223 del 1991, non sopravvivendo alla privatizzazione il regime di stabilità del rapporto di lavoro, con un ente pubblico economico, posto che la salvezza dei diritti quesiti riguarda le posizioni soggettive già acquisite al patrimonio del prestatore di lavoro sotto il profilo economico, e non riducibili a mere aspettative sotto il profilo giuridico (ma v. anche nel medesimo senso Cass. n. 29750/2017).

    Pertanto, la sentenza di rinvio, in base ad un accertamento fattuale che il ricorrente non pone in discussione (quanto alla comune contrattazione collettiva di settore sopravvenuta alla l. n. 218/1990), è conforme ai suddetti principi di diritto, specificamente enunciati in ordine alla medesima procedura di licenziamento collettivo, come già notato.

    Per contro, i precedenti di legittimità citati dal ricorrente nello svolgimento del terzo motivo, ignorando quelli specifici correttamente richiamati dalla Corte di merito, riguardano fattispecie del tutto diverse da quella che qui ci occupa.

    11. Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

     

    P.Q.M.

     

    Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.

    Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

Made in DataLabor.Com