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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 29/11/2021

    Licenziamento disciplinare - Svolgimento non autorizzato di attività di lavoro autonomo e di prestazione d’opera a favore di terzi - Proporzionalità della sanzione irrogata - Accertamento

     

    Fatti di causa

     

    1. La Corte d’Appello di Catania, riformando la sentenza del Tribunale della stessa sede, ha rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato dall’Agenzia delle Entrate nei riguardi di M.S., per lo svolgimento non autorizzato di attività di lavoro autonomo e di prestazione d’opera a favore di terzi.

    La Corte territoriale riteneva che a fondare l’annullamento del recesso datoriale non potesse essere il fatto che la sanzione fosse stata applicata dal Direttore della Direzione Regionale delle Entrate, quale organo incompetente perché non individuato come Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (di seguito, UPD) ai sensi dell’art. 55-bis, co. 4, d. lgs. 165/2001 e ciò in quanto tale ragione di invalidità non era stata fatta valere nell’ambito del ricorso introduttivo del giudizio, ma solo con le note difensive finali di primo grado, mentre il processo di impugnazione del licenziamento era da ritenere limitato alle censure dedotte originariamente dal lavoratore non integrabili, neanche per le questioni di nullità, dalla rilevazione d’ufficio degli eventuali vizi e quindi, necessariamente, neppure sulla base della tardiva eccezione propositiva del profilo di nullità, qui attinente - appunto - alla competenza dell'organo da cui era stata applicata la sanzione.

    La Corte rigettava, invece, nel merito le ulteriori censure in ordine alla carenza di pubblicità o conoscibilità delle regole disciplinari o di quelle sull’incompatibilità, riconoscendo la fondatezza dell’addebito e la proporzionalità della sanzione irrogata.

    2. M.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, sub specie di violazione dell’art. 55-bis, co. 4, d. lgs. 165/2001, nonché degli artt. 1418 e 1421 c.c.

    L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

    Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, già parte nel processo in appello e nei cui confronti il ricorso per cassazione è stato parimenti notificato è rimasto intimato.

     

    Ragioni della decisione

     

    1. L’unico articolato motivo di ricorso sostiene, secondo le due direttrici normative in esso indicate in rubrica e sopra riepilogate, che la sentenza impugnata, nel ritenere che la questione sulla competenza dell’organo che aveva irrogato la sanzione non potesse essere esaminata perché non introdotta originariamente con l’impugnativa giudiziale del licenziamento, avrebbe violato l’art. 1421 c.c., secondo cui le nullità dei negozi (e degli atti unilaterali, ex art. 1324 c.c.) sono rilevabili d’ufficio e, quindi, possono essere oggetto di sollecitazione anche tardiva, finalizzata appunto a tale rilevazione, ad opera della parte a ciò interessata, il tutto in connessione con l’art. 55-bis d. lgs. 165/2001 secondo cui il licenziamento deve essere irrogato dall’UPD, quale non era il Direttore della Direzione Regionale.

    2. Il motivo è infondato, nei termini che si vanno ad esporre.

    3. Questa S.C. ha già reiteratamente affermato che «il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati "ex actis", in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto» (Cass., S.U., 7 maggio 2013, n. 10531 e, poi, Cass. 31 ottobre 2018, n. 27998).

    In tale affermazione è peraltro indirettamente individuato anche il perimetro entro cui la rilevazione d’ufficio è consentita.

    Lo svincolo rispetto alle preclusioni è infatti condizionato all’emersione, dal materiale processuale già esistente, di fatti che siano idonei ad integrare il profilo a rilievo officioso, dovendosi affermare che il potere-dovere di rilevazione officiosa di un’eccezione in senso lato si misura sull’ambito dei fatti legalmente acquisiti al processo nel momento in cui tale rilievo deve avere corso.

    La rilevabilità d’ufficio manifesta, infatti, la possibilità che il giudice (o la parte, sollecitando la corrispondente questione) attribuisca significatività giuridica ad una circostanza che, pur acquisita al processo (attraverso affermazioni pregresse di parte, produzioni o qualunque incombente istruttorio legalmente svolto), non sia stata giuridicamente valorizzata dalle parti (espressamente o comunque in modo inequivoco) entro i termini preclusivi che caratterizzano le attività destinate a individuare i fatti costitutivi o le eccezioni rispetto all’oggetto del contendere.

    Il potere-dovere officioso di rilevare il significato giuridico di un certo fatto, pur se non valorizzato dalle parti, nel che consiste il proprium della "rilevazione" d’ufficio - anche rispetto alla proposizione di un’eccezione ad opera della parte - non va invece sovrapposto all’introduzione nel processo di una circostanza che già non gli appartenesse, né con la proposizione di ipotesi o di percorsi di indagine finalizzati ad addivenire, da un fatto del processo, all'acquisizione al dibattito di un altro fatto, costitutivo o tale da integrare eccezione, ancora ad esso estraneo.

    Il giudice, ed in particolare quello del lavoro, hanno il poteredovere di dare corso alle piste probatorie finalizzate a verificare se siano dimostrabili certi fatti decisivi ma si deve pur sempre trattare di fatti già acquisiti al processo (Cass. 15 maggio 2018, n. 11845; Cass. 13 febbraio 2006, n. 3047) e non di fatti di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) soltanto ipotizzi la verificazione e ne esplori l’esistenza o i connotati.

    È del resto consolidata la massima per cui il rilievo officioso delle eccezioni può aversi se ed in quanto il contenuto fattuale di esse già emerga dagli atti (v. sulla scia di Cass., S.U., 10531/2013 cit., tra le molte, Cass. 22 ottobre 2015, n. 21524, Cass. 30 settembre 2016, n. 19567; Cass. 5 agosto 2021, n. 22371), il che si specifica ulteriormente nel senso che, al di là della prova dei fatti che fondano l’eccezione, è la loro stessa esistenza o inesistenza a dover già essere interna al processo almeno come allegazione di parte o emergenza da un qualche dato istruttorio.

    4. Venendo all’oggetto della presente causa, l’art. 55-bis, nella versione ratione temporis applicabile, prevede che le sanzioni di minore gravità siano di competenza del responsabile della «struttura in cui il dipendente lavora, anche in posizione di comando o di fuori ruolo» (co. 2), mentre vi è competenza dell’ufficio per i procedimenti disciplinari che «ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua» quando il responsabile della struttura ove è prestato il servizio «non ha qualifica dirigenziale», oppure e «comunque per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi», tra cui il licenziamento che qui viene in evidenza.

    La ratio, sostanzialmente confermata anche dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017, è quella di sottrarre la competenza per tali sanzioni a chi sia direttamente preposto, presso la struttura ove è prestato il servizio, al lavoratore interessato, al fine di assicurare terzietà istituzionale all'organo che procede al rilievo ed alla decisione disciplinare.

    Ciò è reso evidente dal riferimento, finalizzato ad escludere la competenza, non a qualsiasi superiore del dipendente, ma al responsabile della «struttura in cui il dipendente lavora»; così come anche dal fatto che, nel caso in cui si tratti di sanzioni minori, ma l’ufficio di servizio sia privo di un superiore con qualifica dirigenziale, la norma attribuisce prevalenza al principio di terzietà attraverso l’esclusione della possibilità che ad irrogare le misura possa essere un qualsiasi addetto genericamente munito di un potere direttivo nei confronti dell’interessato.

    In ciò, e solo in ciò, come precisato dalla giurisprudenza di questa S.C., sta altresì il fondamento della regola di competenza (Cass. 4 novembre 2016, n. 22487) e dell’invalidità che dalla sua violazione può scaturire, come si è ulteriormente precisato allorquando si è affermato che «l’art. 55-bis, laddove stabilisce che ciascuna amministrazione individua l'UPD, costituisce norma imperativa solo nella parte in cui impone all'ente il rispetto della garanzia di terzietà dell'ufficio, ma non anche quanto alle regole procedimentali interne, derivanti dalle scelte organizzative delle diverse amministrazioni, che regolano la costituzione ed il funzionamento dell'UPD» (Cass. 10 luglio 2020, n. 14811), sul parimenti precisato presupposto che in altri termini il legislatore «persegue unicamente l’obiettivo di garantire, per le sanzioni più gravi, che tutte le fasi del procedimento vengano condotte da un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed al capo struttura», sicché «non ha ritenuto di dovere imporre ulteriori vincoli alle amministrazioni ed anzi, attraverso il richiamo all’ordinamento proprio di ciascuna, ha inteso sottolineare la necessità di procedere alla individuazione, coniugando il rispetto della finalità sopra indicata con le esigenze organizzative di ciascun ente» rilevandosi altresì che «non a caso non sono state dettate prescrizioni in merito alla composizione collegiale o personale dell'ufficio né sono stati imposti requisiti per i soggetti chiamati a comporre l'ufficio medesimo>> (Cass. 5 marzo 2017, n. 5317).

    5. Nel caso di specie, al momento in cui il ricorrente ha sollevato l’eccezione in punto di competenza, i fatti che risultavano in causa, secondo quanto esposto con il ricorso per cassazione, erano che il lavoratore era stato sanzionato per un illecito commesso allorquando egli era in servizio presso l’Ufficio di Catania dell’Agenzia delle Entrate, con qualifica di assistente e che il procedimento disciplinare nei suoi confronti era stato istruito e condotto dal Direttore della Direzione Regionale delle Entrate di Palermo.

    È quindi evidente che, a procedere, non era il superiore presso l’Ufficio di Catania, ove lo S. prestava servizio in posizione di assistenza e quindi certamente non di vertice dell’ufficio, sicché la violazione di competenza dell’avere proceduto disciplinarmente il preposto all’ufficio specifico non sussisteva.

    Rispetto al fatto, invece, che quel Direttore fosse o meno costituito in ufficio per i procedimenti disciplinari nulla poteva essere detto, perché tale aspetto, già sotto il profilo fattuale, non risultava in alcun modo, né positivo né negativo, acquisito al dibattito processuale.

    Le circostanze relative ad esso erano necessarie ad integrare l’eccezione, e a fortiori il rilievo officioso di una nullità, altrimenti inafferrabile, a fronte di un procedimento che palesemente non proveniva dall’immediato addetto con poteri prevalenti presso la sede di servizio.

    Quindi non poteva essere il giudice ad aprire l’esplorazione su un tema di fatto (ossia l’organizzazione interna dell’ente e le modalità attraverso le quali era stato adempiuto l’obbligo di previa individuazione dell’UPD) che, in quel frangente, tutt’al più costituiva un’ipotesi, traducendosi altrimenti l’attività processuale non nella "rilevazione" di una possibile nullità, ma nell’avvio di un percorso di indagine rispetto all'acquisizione di circostanze ancora estranee al materiale di causa.

    La proposizione tardiva della corrispondente eccezione ad opera della parte, al fine di sollecitare l’asserito potere di rilevabilità officiosa della nullità, ha dunque aggiunto circostanze al giudizio ed eccede, pertanto, i limiti di operatività processuale dell’art. 1421 c.c.

    Tutto ciò a prescindere dal rilievo giuridico che potesse poi avere l’assetto di fatto esistente, nel senso dell’eventuale insussistenza della previa individuazione dell’UPD o nella sua individuazione in organo diverso da quel Direttore o quant’altro, osservandosi - peraltro - che questa S.C. già si è espressa nel senso della legittimità d’una eventuale identificazione dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari con il Direttore regionale, in armonia con la vigente disciplina regolamentare dell'ente e con l'esigenza di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell'ambito dell'ufficio di appartenenza del lavoratore (Cass. 29 luglio 2019, n. 20417).

    5.1 Non vi è quindi necessità di affrontare il controverso tema della rilevabilità officiosa delle nullità non dedotte dalla parte nell’ambito del processo di licenziamento, su cui v. le posizioni espresse, per un verso, da Cass. 28 agosto 2015, n. 17286 e altre successive conformi e, per altro verso, da Cass. 24 marzo 2017, n. 7687 e altre successive conformi sulla scia di un diverso posizionamento giuridico rispetto all’arresto di Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242.

    Infatti, nel caso di specie, mancavano comunque i presupposti fattuali e processuali perché una tale rilevazione avesse ritualmente corso.

    6. Così corretta ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ. la motivazione della sentenza impugnata, il ricorso per cassazione va rigettato.

    Le spese seguono la soccombenza.

    7. Può altresì essere formulato il seguente principio: <<La rilevazione d'ufficio di una nullità sostanziale può avere corso esclusivamente se basata su fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendosi essa fondare su fatti di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) soltanto astrattamente possa ipotizzare la verificazione e che per essere introdotti presuppongano l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito».

     

    P.Q.M.

     

    Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

    Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

 

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