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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 15/04/2025

    Licenziamento per giusta causa - Attività extra lavorativa - Comportamenti illeciti - Documentazione aziendale - Controllo sull’attività lavorativa - Art. 18 Statuto dei lavoratori - Trattamento dei dati personali - Legittimità del controllo - Principi di correttezza e buona fede - Rigetto

     

    Ritenuto che

     

    1. Con sentenza del 22.3.24 la corte d’appello di Napoli ha rigettato il reclamo avverso sentenza 3.5.22 del tribunale di Napoli nord, che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento per giusta causa del 13.12.19 irrogato a lavoratore in epigrafe da S. S.p.A.

    Nel caso, il licenziamento era motivato da svolgimento di attività extra lavorativa di lavoratore (giuntista in attività esterne) durante l’orario di servizio, svolgimento accertato con un controllo effettuato da società investigativa.

    2. Il controllo è stato ritenuto legittimo dalla corte territoriale in quanto volto non ad accertare l’inadempimento dell’ordinaria obbligazione contrattuale, ma illeciti commessi dal lavoratore; la corte ha sottolineato altresì che i testi avevano affermato che, in caso di chiusura del singolo intervento esterno intervenuta prima del previsto, veniva assegnato altro intervento fino a completamento dell’orario giornaliero di otto ore.

    3. Avverso tale sentenza ricorre il lavoratore per quattro motivi, resiste l’azienda con controricorso.

    Le parti hanno presentato memorie.

    4. Il Collegio, all’esito della camera di consiglio, si è riservato il termine di giorni sessanta per il deposito del provvedimento.

     

    Considerato che

     

    5. Il primo motivo deduce - ai sensi dell’articolo 360 numero 4 c.p.c.- violazione dell’articolo 112 per omessa pronuncia sulla eccezione di inutilizzabilità dei dati acquisiti a mezzo azienda investigativa in assenza di prova di mandato e di indicazione dei nominativi dei soggetti che avevano fatto le indagini e la raccolta dei dati personali.

    6. Il secondo motivo –ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c.- violazione degli articoli 2119, 4 e 18 statuto dei lavoratori, 2 quater  41 e 112 del decreto legislativo 196 del 2003 nonché 2 e 64 bis del decreto legislativo 101 del 18, in relazione all’affermata utilizzabilità dei dati acquisiti mediante azienda investigativa, sebbene il controllo fosse in contrasto anche con il codice privacy e con i principi europei affermati dalla sentenza B. della CEDU.

    7. Il terzo motivo deduce violazione degli articolo 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla violazione dell’articolo 7 dello statuto dei lavoratori per non aver consentito al lavoratore l’utilizzo del tablet aziendale a scopo di ricostruzione dell’attività lavorativa e quindi a scopo difensivo.

    8. Il quarto motivo deduce violazioni agli articoli 2,3 e 4 dello statuto dei lavoratori, perché il controllo aveva riguardato l’orario di lavoro e quindi l’inadempimento contrattuale e le prestazioni stesse.

    9. E’ preliminare l’esame del terzo motivo di ricorso che riguarda l’attività difensiva del lavoratore.

    10. In tema, questa Corte ha già affermato (Sez. L , Sentenza n. 7581 del 27/03/2018 (Rv. 647659 - 01) che, in tema di procedimento disciplinare, il datore di lavoro, pur non essendovi obbligato dall'art. 7 st. lav., è tenuto a offrire in consultazione al lavoratore incolpato i documenti aziendali laddove l'esame degli stessi sia necessario al fine di consentirgli un'adeguata difesa, in base ai princìpi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, indipendentemente dalla comprensibilità dell'addebito (v. anche Sez. L, Sentenza n. 6337 del 13/03/2013, Rv. 626064 - 01).

    11. Ciò posto, il Collegio evidenzia preliminarmente -con Cass. n. 30079 del 2024- che, se il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa ed a condizione che il lavoratore li abbia indicati specificamente, l'art. 7 della l. n. 300 del 1970 non prevede, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizione della documentazione stessa.

    12. In altri termini, il diritto del lavoratore alla comunanza della prova evincibile dalla documentazione aziendale passa nel giudizio attraverso la richiesta di un’esibizione in giudizio dei documenti rilevanti utili alla difesa, esibizione che nel caso di specie non è stata neppure chiesta.

    13. In ogni caso, il Collegio ritiene insuperabile la considerazione che, nel caso di specie, la corte territoriale ha evidenziato, con valutazione di merito non sindacabile in questa sede, che la consultazione del tablet aziendale da parte del ricorrente non era affatto necessaria per le difese del lavoratore, in quanto essa –contenendo i soli dati relativi all’attività da espletare- non avrebbe potuto in alcun modo contrastare le risultanze dell’istruttoria espletata relative alle diverse attività compiute dal lavoratore durante l’orario di lavoro.

    14. Il Collegio, nel condividere tale valutazione, ritiene pertanto il motivo di ricorso privo di pregio.

    15. Venendo poi alla questione della rilevanza dell’accertamento dell’azienda investigativa, vanno esaminati congiuntamente il primo ed il quarto motivo di ricorso, riguardando questi la legittimità del controllo operato dal datore di lavoro a mezzo investigatori.

    16. Il Collegio reputa che anche le doglianze relative ai detti motivi siano infondate, in quanto nel caso vi è stato un controllo sull’attività lavorativa giustificata dalla ricerca di illeciti diversi del lavoratore, coinvolto in attività di tipo fraudolento ai danni del datore di lavoro.

    17. Invero, questa Corte ha già ripetutamente affermato (tra le tante, Sez. L - , Ordinanza n. 15094 del 11/06/2018, Rv. 649245 - 01) che i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l'adempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 st.lav.

    Nel medesimo senso, anche Sez. L - , Sentenza n. 25732 del 22/09/2021 (Rv. 662328 - 01), secondo cui, in tema di cd. sistemi difensivi, sono consentiti i controlli posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto.

    18. In particolare, questa giurisprudenza di legittimità ha sempre evidenziato -in tema di controlli datoriali a mezzo agenzie investigative, ed in ordine alla portata degli artt. 2 e 3 della I. n. 300 del 1970, i quali delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi, e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3) -, che essi non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (come, nella specie, un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica, fermo restando che detto controllo non possa riguardare l'adempimento né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione (cfr., in tali termini, Cass. n. 9167 del 2003).

    19. Il Collegio ricorda che i limiti di operatività del divieto di controllo occulto sull'attività lavorativa operano anche nel caso di prestazioni lavorative svolte al di fuori dei locali aziendali, ove pure il ricorso ad investigatori privati può essere finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti (come l'esercizio durante l'orario lavorativo di attività retribuita in favore di terzi su cui v. Cass. nn. 5269 e 14383 del 2000) o comunque fraudolente, come nel caso di verifica sull'attività extralavorativa svolta dal lavoratore in violazione del divieto di concorrenza, fonte di danni per il datore di lavoro (Cass. n. 12810 del 2017) ovvero nel caso di controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge n. 104 del 1992 (v. Cass. n. 4984 del 2014), ovvero come nei casi in cui il lavoratore, come nella specie, compia durante l’orario di lavoro attività estranee al rapporto di lavoro e relative a probabili ulteriori rapporti lavorativi (pur non in concorrenza) con terzi (v. per un’applicazione particolarmente rigorosa del principio, Cass. 27610 del 2024, relativa al caso di licenziamento di dipendenti che si intrattenevano in più occasioni per oltre mezz’ora all’interno di esercizi commerciali in orari di lavoro, effettuando sostanzialmente lunghe e frequenti pause non autorizzate).

    20. Tale indirizzo è stato sempre ribadito, riconoscendosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, ma affermandosi sempre che resta giustificato l'intervento in questione in ragione dell'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. n. 3590 del 2011; più di recente Cass. n. 15867 del 2017, con la giurisprudenza ivi citata); né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro.

    21. I detti principi vanno dunque applicati al caso di specie, ove si è riscontrata, sulla base dell’accertamento di merito operato dalla corte territoriale, un’attività fraudolenta del lavoratore, consistita nel dedicarsi ad attività personali in orario di servizio, approfittando del mancato controllo della società datrice di lavoro dovuto alle modalità dell’attività lavorativa all’esterno (la corte territoriale ha in particolare accertato che “il L., in orario lavorativo, si recava presso un bar, svolgendo attività personali, collocandosi dietro al bancone e servendo i prodotti, sistemando bottiglie, maneggiando la macchinetta del caffè e usando il lavandino, utilizzando il furgone aziendale per scaricare bottiglie d’acqua presso lo stesso bar”).

    22. Da ultimo, anche il secondo motivo di ricorso va disatteso.

    23. Intanto, il motivo postula l’affermazione, per nulla pacifica in giurisprudenza, secondo cui le violazioni sostanziali (e tanto più quelle relative alla sola tutela della privacy) ridondano automaticamente in inutilizzabilità processuale.

    24. In secondo luogo, non risulta alcuna violazione dell’utilizzo di dati personali del lavoratore che possa fondare la violazione denunciata, essendo anzi il trattamento di dati personali senza previa informativa rispettosa dei principi affermati dalla giurisprudenza in materia.

    25. Al riguardo, il trattamento dei dati acquisiti dalle agenzie investigative, nei limiti in cui si muove nell’ambito della sfera dei controlli difensivi leciti, era già facoltizzato dall’art. 13, comma 5, lett. b, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (poi abrogata dall'art. 27, comma 1, lett. a, n. 2, d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, in sede di adeguamento alle nuove regole del GDPR), che permetteva di derogare agli obblighi di informazione preventiva «quando i dati sono trattati ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento».

    Successivamente, l’art. 6 par. 1, lett. f), del Regolamento ha confermato che una delle condizioni di liceità del trattamento è rappresentata dal fatto che lo stesso “è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi”, ma sempre “a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali”.

    26. In tale contesto, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto consentito il trattamento ove avvenga nel rispetto dei criteri della minimizzazione e proporzionalità, pertinenza e non eccedenza rispetto ad uno scopo legittimo, di trasparenza e correttezza nel trattamento dei dati personali del lavoratore, e del rispetto della sfera di riservatezza del lavoratore e della sua dignità (in tal senso, Cass. Sez. L - , Sentenza n. 18168 del 26/06/2023, Rv. 668092 - 01).

    Tutti limiti che nel caso di specie non risultano esser stati affatto violati.

    27. Infine, deve rilevarsi il difetto di decisività del motivo di ricorso, atteso che la sentenza impugnata si basa non solo sul report dell’agenzia investigativa ma anche sulla testimonianza resa in giudizio dalla persona fisica autrice degli accertamenti, dato questo comunque sufficiente ed idoneo a sostenere le accuse mosse al lavoratore e poste alla base del recesso datoriale e, per altro verso, attività del tutto sottratta all’applicazione del regolamento sulla tutela dei dati personali.

    28. Ne consegue il rigetto del ricorso.

    29. Spese secondo soccombenza.

    30. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

     

    P.Q.M.

     

    - Rigetta il ricorso.

    - Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in euro 3000 per compensi professionali ed euro 200 per esborsi, oltre a spese generali al 15% ed accessori come per legge.

    - Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

 

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