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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 24/03/2023

    Esercizio abusivo della professione di giornalista - Iscrizione nell'elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti - Inammissibilità del ricorso

     

    Ritenuto in fatto

     

    1. La Corte di appello di Ancona ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui B.M. è stato condannato per il delitto di cui all'art. 348 cod. pen.

    All'imputato è contestato di avere esercitato abusivamente la professione di giornalista senza mai essere iscritto all'albo.

    2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato articolando due motivi.

    2.1. Con il primo si deduce violazione di legge con riguardo all'art. 1 della legge 3 febbraio 1969, n. 63 (ndr art. 1 della legge 3 febbraio 1963, n. 69), da interpretarsi alla luce dell'art. 35 della stessa legge, e vizio di motivazione.

    Sarebbe viziato l'assunto della Corte secondo cui, in mancanza di una esplicita definizione dell'attività giornalistica, detta definizione sarebbe desumibile da canoni di comune esperienza e l'attività espletata dall'imputato (il quale effettuava interviste, curava servizi di cronaca e commentava confronti politici) sarebbe riconducibile all'attività giornalistica.

    Secondo l'imputato la Corte avrebbe errato nel ritenere che l'art. 1 della legge indicata, interpretato alla luce dell'art. 35 della stessa legge, fornisca una nozione restrittiva di attività giornalistica, nel senso che, al di fuori delle due figure professionali indicate dalla stessa legge (giornalista professionista e giornalista pubblicista), non vi sarebbero altre modalità con cui esercitare un'attività assimilabile a quella giornalistica, a meno di non incorrere in un esercizio abusivo della professione.

    Detta interpretazione restrittiva, si argomenta, contrasterebbe con l'esistenza - riconosciuta nella comune esperienza - di figure professionali quali l'articolista e il documentarista che, pur esercitando attività del tutto analoghe a quelle del giornalista, si scostano da questa per molteplici requisiti, quali l'assenza di esclusività, di continuità, la non occasionalità e/o retribuzione e appunto, la mancata iscrizione all'Albo.

    La legge n. 69 del 1963 istitutiva dell'Albo dei giornalisti avrebbe cioè inteso regolamentare l'attività giornalistica allorchè questa venga esercitata secondo determinate modalità ben strutturate, ma non avrebbe affatto precluso l'esercizio di attività analoghe e per certi versi sovrapponibili, allorchè detto esercizio venga effettuato in forma autonoma, come accaduto nella vicenda in esame.

    L'art. 1 della legge in questione ammetterebbe cioè che l'attività giornalistica possa essere esercitata in modo non esclusivo, non continuativo, occasionale e senza retribuzione e pertanto si ammette che l'attività giornalistica possa essere compiuta lecitamente, pur senza essere giornalisti professionisti o giornalisti pubblicisti e dunque senza essere iscritti all'albo.

    Tale interpretazione sarebbe avallata dall'art. 35 della legge 69 del 1963 che richiede, ai fini della iscrizione all'albo, che vi sia documentazione comprovante il compimento di un'attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni; detta norma, si assume, comproverebbe la possibilità di svolgere attività di giornalista pur senza essere iscritto all'albo.

    Dunque l'attività svolta dall'imputato non potrebbe essere considerata abusiva.

    L'iscrizione all'albo, si aggiunge, genera diritti e doveri e vi sarebbero attività esercitabili solo dagli iscritti all'albo: tra tali attività non sarebbe compresa quella per cui si procede.

    2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge nella parte in cui l'imputato, pur in presenza di una riforma parziale della sentenza di primo grado, è stato comunque condannato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile nel grado di appello.

     

    Considerato in diritto

     

    1. Il ricorso è inammissibile

    2. È inammissibile il primo motivo perché generico. Ai sensi dell'art. 1 della legge 1963 n. 69:

    "all'Ordine dei giornalisti appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell'albo.

    Sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista.

    Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi.

    Ai sensi dell'art. 35 della legge indicata:

    "per l'iscrizione all'elenco dei pubblicisti la domanda dev'essere corredata, oltre che dai documenti di cui ai numeri 1), 2) e 4) del primo comma dell'art. 31, anche dai giornali e periodici contenenti scritti a firma del richiedente, e da certificati dei direttori delle pubblicazioni, che comprovino l'attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni".

    Dette previsioni devono essere poste in connessione con l'art. 45 della stessa legge, così come modificato dalla legge 26 ottobre 2016, n. 198, secondo cui:

    "nessuno può assumere il titolo ne' esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell'elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell'albo istituito presso l'Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave".

    Dunque per esercitare la professione di giornalista è necessaria l'iscrizione nell'elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti; l'inosservanza di detta previsione è punita ai sensi dell'art. 348 cod. pen.

    3. In tale contesto la giurisprudenza, già prima della modifica apportata dalla legge 198 del 2016, aveva chiarito che, al di là della distinzione tra professionisti e pubblicisti, poichè la Costituzione garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero liberamente e con ogni mezzo di diffusione, ogni cittadino può svolgere, episodicamente, l'attività di giornalista e dunque non  commette il reato di abusivo esercizio della professione di giornalista, di cui agli artt. 348 cod. pen. e 45 legge 3 febbraio 1963, n. 69, colui che, senza essere iscritto all'albo dei giornalisti o in quello dei pubblicisti, collabori saltuariamente ad un periodico venendo retribuito volta per volta (Sez. 6, n. 428 del 02/04/1971, Gori, Rv. 118492).

    Si è in particolare spiegato che integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano tuttavia univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Sez. U, n. 11545 del 23 marzo 2012, Cani, Rv. 251819).

    Accanto cioè, alla riserva professionale collegata alla attribuzione in via esclusiva del singolo atto, esiste una riserva collegata allo svolgimento, con modalità tipiche della professione, di atti univocamente ricompresi nella sua competenza specifica Sez. 6, n. 23843 del 15 maggio 2013, Rv. 255673).

    4. In tale quadro di riferimento i Giudici di merito hanno spiegato in punto di fatto che l'imputato partecipava a conferenze stampa, effettuava interviste, curava servizi di cronaca per una testata televisiva, commentava confronti politici; l'imputato faceva parte di detta testata televisiva in modo "organizzato": un'attività, si è ritenuto, svolta in modo continuativo.

    Non diversamente il Tribunale, dopo aver ricostruito i fatti e valutato le prove, ha spiegato che l'attività svolta dall'imputato aveva natura informativa e che lo stesso imputato soleva definirsi come un giornalista non iscritto all'albo.

    A fronte di una trama argomentativa adeguata e obiettivamente chiara, il motivo di ricorso rivela la sua strutturale inammissibilità perché non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, non evidenzia nessun vizio valutativo volto a minare l'accertamento fattuale, non chiarisce perché l'attività svolta dall'imputato non sarebbe riconducibile a quelle per le quali è necessaria l'iscrizione all'albo, né spiega sulla base di quali elementi i Giudici di merito avrebbero errato nel ritenere continuativa l'attività svolta dal ricorrente.

    L'intera ricostruzione alternativa del ricorrente è fondata su una ipotizzata violazione di legge che, tuttavia, sulla base dei fatti accertati non sussiste.

    5. È inammissibile anche il secondo motivo di ricorso, essendosi limitata la Corte di appello a rideterminare la pena, e, dunque, a riformare la sentenza di primo grado in relazione ad un profilo esterno rispetto all'accertamento della responsabilità penale e del fatto illecito posto a fondamento della domanda risarcitoria.

    La Corte di cassazione ha chiarito che la soccombenza dell'imputato ai fini del rimborso delle spese alla parte civile deve essere valutato solo in relazione a questa; l'imputato, infatti, può essere condannato alla rifusione delle spese alla parte civile, ma non al pagamento delle spese processuali, qualora il giudizio d'impugnazione si sia concluso, come nel caso di specie. con il rigetto del motivo concernente la sua responsabilità e con l'accoglimento di altri motivi concernenti la concessione di attenuanti o la riduzione della pena (Sez. 3, n. 3401 del 03/06/1975 Zelante, Rv. 133740).

    La parte civile deve essere considerata vittoriosa allorchè, nel giudizio di impugnazione nel quale l'imputato abbia chiesto la sua assoluzione, il giudice ne confermi la responsabilità, pur riducendo la misura della pena (Sez. 1, n. 1927 del 13/06/1973, Giorgi, Rv. 126383).

    6. Alla dichiarazione d'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare nella misura di tremila euro; l'imputato deve inoltre essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, Ordine giornalisti Marche, che si liquidano in complessivi euro 2.316,00 oltre accessori di legge.

     

    P.Q.M.

     

    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

    Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, Ordine giornalisti Marche, che liquida in complessivi euro 2.316,00 oltre accessori di legge.

 

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