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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 26/05/2022

    Licenziamento per giusta causa - Abuso dei permessi ex art. 33, co. 3, L. n. 104 del 1992 - Illegittimità - Sproporzione tra condotta non tipizzata e sanzione irrogata - Tutela risarcitoria forte

    Rilevato che

     

    1. La Corte di appello di Perugia, con sentenza n. 23 depositata l’1.2.2019, in riforma della sentenza del Tribunale di Spoleto, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato da U. s.p.a. (già U.C. s.p.a.), con lettera del 22.11.2016, a F.M.M. per abuso dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.

    2. La Corte di appello, ha, in sintesi, osservato, che doveva ritenersi raggiunta la prova dell’abuso dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 fruiti nelle giornate del 14 settembre, 6, 26, 27 ottobre 2016 (in relazione al turno di lavoro 6,00-14,00) risultando - dalla relazione dell’agenzia investigativa (incaricata dal datore di lavoro) nonché dalle prove testimoniali - che il M. aveva utilizzato quattro ore e mezzo (sulle complessive trentadue ore di permesso) per lo svolgimento di attività che nulla avevano a che fare (nemmeno indirettamente) con l’assistenza della madre bisognosa, dovendo ricomprendere nell’ambito dell’abuso del diritto tutte quelle condotte estranee all’assistenza e meramente compensative delle energie impiegate per la suddetta assistenza; la condotta abusiva, seppur disciplinarmente rilevante, non assumeva quei connotati di gravità tale da incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario; la Corte territoriale ha, dunque, dichiarato illegittimo il licenziamento e, con riguardo all’apparato sanzionatorio - dovendosi escludere sia l’ipotesi di insussistenza del fatto sia la sussunzione in fattispecie tipizzate dal CCNL di settore - ha applicato il comma 5 dell’art. 18 (come novellato nel 2012), dichiarando risolto il rapporto di lavoro e condannando la società al pagamento di 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

    3. Per la cassazione di tale sentenza il M. ha proposto ricorso affidato a due motivi. La società ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale affidato a un motivo. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

     

    Considerato che

     

    1. Con il primo motivo di ricorso principale si denunzia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 33, commi 3 e 7bis, della legge n. 104 del 1992, avendo, la Corte territoriale, applicato il principio, errato, che tutto il tempo previsto dal (o dai) permesso (permessi) deve essere necessariamente occupato nel diretto accudimento del disabile, sussistendo un abuso del diritto solo nel caso in cui il lavoratore, nelle giornate di permesso, non abbia svolto attività riconducibili, anche in senso lato, al concetto di assistenza, non potendo essere interpretato in senso restrittivo limitatamente alla sola attività di accudimento. Il M. ha certamente svolto, come accertato dal giudice di merito, attività di assistenza intesa in senso ampio.

    2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 cod.civ., 18, commi 4 e 5, della legge n. 92 del 2012, dovendo ritenersi ricorrere, nel caso di specie, una ipotesi di insussistenza dal fatto, sia nella sua materialità sia per la inesistente gravità (e, dunque, carenza di contrarietà al diritto).

    3. Con l’unico motivo di ricorso incidentale si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cod.civ., avendo, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto illegittimo il licenziamento a fronte dell’accertato abuso del diritto compiuto dal lavoratore (seppur ritenuto di modesta entità) senza considerare che è l’abuso in sé sul piano qualitativo, una volta ritenuto sussistente ed esplicitamente grave, ad integrare ipotesi di definitiva compromissione del rapporto fiduciario, con integrazione della fattispecie di cui all’art. 2119 cod.civ.

    4. Vanno esaminati congiuntamente il primo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale in quanto entrambi attinenti alla nozione di abuso del diritto ai permessi previsti dall’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 nonché all’integrazione della nozione legale di giusta causa.

    5. Secondo l'orientamento di questa Corte (per tutte Cass. n. 17968 del 2016), il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del permesso previsto dal citato art. 33, in coerenza con la funzione dello stesso, ossia l'assistenza del familiare disabile, integra un abuso del diritto in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente (oltre ad integrare, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale).

    6. Questa Corte ha precisato come il permesso di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, sia riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la "ratio" della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza; ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. n. 23434 del 2020; Cass. n. 1394 del 2020; Cass. n. 21529 del 2019; Cass. n. 8310 del 2019; Cass. n. 17968 del 2016; n. 19217 del 2016; n. 8784 del 2015).

    7. Invero, in base alla ratio della legge n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, che attribuisce al "lavoratore dipendente... che assiste persona con handicap in situazione di gravità..." il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, è necessario che l'assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile; questa può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell'interesse del familiare assistito (cfr. Cass. Ord. n. 23891 del 2018).

    8. Nel caso di specie, la Corte distrettuale, con accertamento insindacabile in questa sede di legittimità, ha accertato che non tutto l’arco orario delle giornate lavorative ove il M. ha fruito dei permessi è stato dedicato all'assistenza e all'accudimento della madre o, comunque, ad attività anche indirettamente collegabili all’assistenza (pagg. 14 e 15 della sentenza impugnata), dovendo ritenersi che "circa quattro ore e mezzo su trentadue ore di permesso chiesto e ottenuto dal datore di lavoro ... siano stati utilizzati dal M. per lo svolgimento di attività che nulla avevano a che fare con l’assistenza della persona bisognosa".

    9. La Corte distrettuale ha, dunque, ritenuto che per una certa quota i permessi non erano stati utilizzati per l’assistenza, pur intesa in senso lato, della madre disabile ed ha, conseguentemente, rilevato che il lavoratore aveva adottato un comportamento disciplinarmente rilevante, abusando dei permessi ottenuti dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.

    10. La Corte si è, dunque, uniformata alla giurisprudenza elaborata da questa Corte in materia di permessi cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, con conseguente infondatezza del primo motivo del ricorso principale, motivo che presenta, peraltro, profili di inammissibilità per carenza di decisività, a fronte della declaratoria (favorevole al lavoratore) di illegittimità del licenziamento adottata dalla Corte territoriale per assenza di un grave inadempimento tale da scuotere irreversibilmente la fiducia riposta dal datore di lavoro nel suo prestatore.

    11. Il ricorso incidentale della società va, del pari, ritenuto infondato.

    12. Come questa Corte ha affermato, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 cod.civ. compiuta dal giudice di merito - mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie - "è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale" (cfr. Cass. n. 13534 del 2019 e, da ultimo, Cass. n. 11665 del 2020; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).

    13. L'accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento opera sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.

    14. Solamente l'integrazione a livello generale e astratto della clausola generale (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; invece, l'applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, "ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta", spettando inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità - in termini positivi o negativi - all'ipotesi normativa" (in termini Cass. n. 18247 del 2009 e Cass.n. 7838 del 2005).

    14. Nella specie è evidente che la società ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un'erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ., che - nella versione ratione temporis applicabile - lo circoscrive all'omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014) censura, nella specie, non proposta.

    15. Il secondo motivo del ricorso principale, che attiene al regime sanzionatorio applicato dalla sentenza impugnata, non è fondato.

    16. Preliminarmente, va ribadito che il giudice, nel regime dettato dall’art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970, deve procedere ad un giudizio più completo ed articolato rispetto al periodo precedente la novella del 2012, dovendo dapprima accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso (nozioni fissate dalla legge, rispettivamente agli artt. 2119 cod. civ. e 3 della legge n. 604 del 1966, tenuto conto, ex art. 30 della legge n. 183 del 2010, delle tipizzazioni contenute nei contratti collettivi o nel contratto individuale, dalle quali il giudice può discostarsi motivando lo scostamento dal parametro valutativo), e, nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva (come nel caso di specie), va svolta una disamina sulla ricorrenza delle due condizioni previste dal comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria, dovendo, in assenza, applicare il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del comma 5 (cfr. Cass. n. 31839 del 2019 e, da ultimo, Cass. n. 11665 del 2022).

    Insomma, è richiesta al giudice una sorta di valutazione bifasica: accertare la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, "nel caso in cui lo escluda, anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante" (cfr. Cass. n. 13178 del 2017 in motivazione e n. 32500 del 2018).

    17. E’ stato recentemente ribadito che "È stata introdotta una graduazione in base alla quale la reintegrazione è consentita per le ipotesi in cui l'illegittimità del recesso è, per così dire, maggiormente evidente e dunque, in via generale, laddove il fatto addebitato non sussista ovvero nel caso in cui quel fatto sia punito dalla disciplina collettiva applicabile con una sanzione conservativa. Laddove invece, in esito alla valutazione in concreto della fattispecie accertata, il giudice ravvisi una sproporzione tra la condotta non tipizzata e la sanzione irrogata, risolto il rapporto di lavoro, dovrà applicare la tutela indennitaria dettata dal comma 5 dell'art. 18 citato rientrandosi in quegli "altri casi" che ai sensi del comma 5 dell'art. 18 sono ristorabili con la c.d. tutela indennitaria forte" (Cass. n. 11665 del 2022).

    18. Posto che l'insussistenza del fatto contestato, comprende l'ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità (cfr., da ultimo, Cass. n. 3076 del 2020; Cass. n. 12174 del 2019), la Corte territoriale ha correttamente applicato il regime sanzionatorio risarcitorio dettato dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970 avendo, da una parte, escluso la ricorrenza di una ipotesi tipizzata di sanzione conservativa da parte del CCNL applicato in azienda (profilo non censurato in questa sede) e, dall’altra, accertato la sussistenza di una condotta disciplinarmente rilevante, avendo, il M., abusato del diritto alla fruizione dei permessi.

    19. In conclusione, il ricorso principale ed il ricorso incidentale vanno respinti e le spese di lite, in considerazione della reciproca soccombenza, vanno compensate integralmente tra le parti.

    19. I ricorsi, principale e incidentale, sono stati notificati in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: "Quando l'impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso". Essendo i ricorsi in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

     

    P.Q.M.

     

    Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

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