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Studio Boschi Consuelenza del Lavoro

  • 26/05/2022

    Rapporto di lavoro - Docente - Mobbing - Configurabilità - Pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli - Straining - Comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti del dipendente - Risarcimento danni - Responsabilità

     

    Rilevato che

     

    la Corte d'Appello di Genova, riformando solo parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa città, ha confermato la reiezione della domanda di risarcimento del danno per comportamenti mobbizzanti o comunque indebitamente lesivi posti in essere nei confronti di D.S., docente in servizio presso l'Istituto Comprensivo San Francesco di Paola di Genova ed ha invece accolto la domanda, già respinta in primo grado, di rimborso delle spese anticipate dalla lavoratrice per la partecipazione ad un Corso di formazione in ambito di sicurezza, nonché di rimborso delle spese di trasferta e dell'equivalente delle giornate di ferie e dei permessi utilizzati dalla ricorrente per la frequentazione del Corso stesso; la Corte territoriale ha dato atto che le condotte allegate in cause erano sostanzialmente pacifiche tra le parti, ma ha ritenuto, da un lato, che il datore di lavoro avesse fornito punto per punto chiarimenti e ragionevoli motivazioni dei comportamenti tenuti e dei fatti verificatisi, nel complesso dovendosi escludere che si potesse ravvisare una strategia persecutoria posta in essere nei riguardi della lavoratrice e potendosi ricollegare la sindrome depressiva prospettata dalla ricorrente ad una sua particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative; la sentenza impugnata, con riferimento a quanto la S. aveva chiesto in pagamento, richiamava, nel rigettare le pretese a titolo di compensi per le funzioni attribuite, le argomentazioni sfavorevoli alla S. già svolte dal Tribunale, mentre riconosceva il diritto al rimborso dei costi di partecipazione al Corso di formazione sulla sicurezza, oltre che all'equivalente delle ore di permesso e delle ferie utilizzate per partecipare alla formazione e ciò sul presupposto che la ricorrente fosse stata autorizzata alla partecipazione a tale Corso, peraltro obbligatoria per lo svolgimento degli incarichi di sicurezza;

    la S. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (di seguito, MIUR) ha resistito con controricorso, contenente anche ricorso incidentale; la ricorrente principale ha infine depositato memoria;

     

    Considerato che

     

    il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.) e si articola in una pluralità di passaggi con cui si afferma:

    - la violazione dell'art. 2087 c.c., per essersi ritenuto che la mera legittimità della condotta, peraltro contestata, fosse sufficiente ad esimere il datore di lavoro da responsabilità, essendo lo stesso viceversa tenuto ad attivarsi per evitare il danno ai lavoratori, senza contare che l'intento lesivo andava ritenuto provato sulla base degli elementi gravi, precisi e concordanti emersi e del carattere emulativo di talune scelte, finite per tradursi addirittura in pregiudizi per l'Amministrazione;

    - ancora la violazione dell'art. 2087 c.c. per non essersi valutato che la stessa sequenza causale degli eventi comportava la responsabilità datoriale anche in assenza di intento vessatorio;

    - la violazione concomitante dell'art. 2697 c.c. e 115 c.p.c., perché la prova dei fatti e del danno vi era stata e dunque la ipotetica giustificatezza delle condotte datoriali non poteva sovvertire gli esiti del giudizio, traducendosi, l'avere invocato la Corte territoriale una «particolare risposta soggettiva» rispetto alle decisioni organizzative, quale causa della lesione della salute manifestatasi, in un mero apprezzamento sfavorevole, privo di rilievo giuridico;

    - la violazione delle stesse norme, per essersi ritenuto che fosse onere del lavoratore fornire prova della condotta mobbizzante, in quanto, una volta provato il danno e la nocività dell'ambiente, era invece il datore a dover dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il pregiudizio;

    - la violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., per essersi ritenuta lecita la scelta del Dirigente di non confermare e non nominare la ricorrente, se non previa presentazione di scuse da parte sua, negli incarichi sulla sicurezza, pur essendo l'unico soggetto a tal fine formato;

    - la violazione dell'art. 32 d. Igs. 81/2008 per avere la Corte ritenuto che ragioni fiduciarie potessero consentire di non attribuire alla ricorrente gli incarichi sulla sicurezza per l'anno 2012/2013, allorquando soltanto essa risultava formata in tal senso, giungendosi anzi alla nomina di insegnante che doveva ancora frequentare il Corso, con susseguenti costi di formazione;

    - la violazione dell'art. 40, co. 3, del d. Igs. 165/2001, in quanto era stata negata alla ricorrente l'attribuzione di quanto in suo favore stanziato in sede di contrattazione di istituto della funzione di "organizzazione spazi", corrispondendole solo euro 1.500,00 dei 2.000,00 stabiliti ed indebitamente attribuendo i restanti 500 euro ad altra incaricata della medesima funzione, così gravemente contravvenendo agli obblighi negoziali assunti;

    il secondo motivo di ricorso denuncia l'omesso esame di fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.) ed indica quattrodici circostanze solo parzialmente disaminate dalla Corte territoriale, il che secondo la ricorrente aveva avuto un'incidenza decisiva sulla pronuncia finale e sulle valutazioni da svolgere rispetto ad essa;

    i plurimi profili sollecitati dai due motivi possono essere esaminati congiuntamente, secondo l'ordine logico-giuridico delle questioni;

    deve iniziarsi intanto dalle questioni riguardanti specifici aspetti di illegittimità nei comportamenti datoriali che sarebbero stati indebitamente denegati dalla Corte territoriale;

    il rifiuto del Dirigente di conferire gli incarichi di sicurezza alla S. per l'anno 2012/2013 non può in sé dirsi illegittimo e comunque fonte della lesione di un diritto della stessa;

    vanno infatti condivise le affermazioni dei giudici di merito secondo cui il Dirigente mantiene tratti di ampia discrezionalità nella scelta eventualmente di non nominare il dipendente scolastico in possesso dei titoli utili;

    l'art. 31 e 32, co. 8 con riferimento specifico agli istituti scolastici, del d. Igs. 81/2008 prevedono in sostanza che il datore di lavoro possa esercitare in proprio quelle funzioni e\o possa designare dipendenti muniti del titolo di formazione oppure, in mancanza, ricorrere a soggetti esterni; secondo la ricorrente, da tale sistema deriverebbe che, se il Dirigente non opti per l'esercizio in proprio, per scelta o perché non in possesso dei titoli, la designazione dovrebbe andare al personale munito di quei titoli e ciò in via necessaria, se ad essere tale sia uno solo dei dipendenti, come si assume sarebbe stato nel caso di specie;

    tuttavia, le cose non stanno e non possono stare in questi termini, perché è corretto l'assunto in ordine alla portata sensibilmente fiduciaria dell'incarico, nel senso che il Dirigente, anche in presenza di personale munito di titoli, resta tenuto ad una valutazione più ampia, cui non possono essere estranei profili di idoneità relazionale del designando, sotto pena di una eventuale culpa in eligendo, qualora poi si verificassero problemi; valutazione che la Corte territoriale, con un non implausibile e come tale insindacabile apprezzamento di merito, ha ritenuto essere stata svolta, in senso sfavorevole verso la scelta della ricorrente, per la «difficoltà» manifestatasi nei rapporti con essa e per le segnalazioni di «criticità», sempre rispetto ad essa, da parte di rappresentanti di classe e genitori; a fronte di ciò, in assenza di altre persone munite del titolo, la scuola avrebbe potuto fare ricorso ad un incarico esterno, sicché resta evidente che, se anche fosse - lo si dice per mera ipotesi - da ritenere illegittimo l'incarico viceversa dato ad altra insegnante in via di formazione specifica, non si può dire che, così operando, stante la legittima valutazione di perdita dell'elemento fiduciario verso la S., si fosse leso un diritto di quest'ultima, in quanto insussistente;

    vi è poi la questione sul compenso per la funzione aggiuntiva di «organizzazione spazi»;

    sul punto, la ricorrente assume che la contrattazione di istituto avrebbe riconosciuto in suo favore tale compenso in misura di euro 2.000,00, mentre poi lo furono date solo euro 1.500,00 ed altri euro 500,00 furono attribuiti ad altro docente che aveva collaborato nella medesima attività; la Corte territoriale su tali "altri importi" ha invece richiamato, condividendola, l'argomentazione del Tribunale, in quanto l'appello non aveva proposto elementi di difesa diversi da quelli già esposti nel ricorso introduttivo;

    il giudizio, in punto di fatto, fa dunque leva sull'avvenuto stanziamento di una somma di euro 2.000,00 per quel servizio e sulla nomina di «titolare» rispetto ad esso della S. (v. ricorso per cassazione, pag. 21, ultimo periodo), circostanze ritenute in sé vere dai giudici, ma non tali da comportare una discriminazione, perché la ripartizione del fondo avvenne poi, nei termini sopra detti, tra i due insegnanti intervenuti per lo svolgimento del servizio;

    analogamente, la difesa dal l'Avvocatura sostiene che la delibera di stanziamento prevede un responsabile ed una somma attribuita al progetto, poi da dividersi sulla base della partecipazione di singoli insegnanti alle attività svolte;

    a parte la logicità intrinseca di tali ricostruzioni, vi è da dire che il motivo non poteva limitarsi a richiamare il documento contenente la deliberazione di istituto in proposito, ma, per contrastare le conclusioni dei giudici di merito, avrebbe dovuto argomentare, se del caso con il richiamo ai debiti canoni ermeneutici (tra le molte, Cass. 24 gennaio 2022, n. 1951; Cass. 15 dicembre 2020, n. 28625), sul tenore dell'originaria statuizione di istituto, trascrivendone il testo per quanto di ragione, al fine di far constare che appunto, come sostenuto, essa conteneva l'attribuzione diretta ed esclusiva alla ricorrente di quei 2.000,00 euro e non uno stanziamento con nomina di un titolare, in sé non ostativo al fatto che poi le somme fossero da suddividere - come ritenuto dalla Corte territoriale - con chi avesse in concreto operato su quel progetto;

    tali elementi non sono riportati nel motivo di ricorso e ciò ne comporta l'inidoneità a sorreggere la corrispondente censure in sede di legittimità, stanti i presupposti di specificità di cui all'art. 366, co. 1, c.p.c. (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 4 e 6 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l'argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);

    infine, vi è da considerare il rivendicato diritto al rimborso dei costi di partecipazione al Corso di formazione, con il rimborso delle trasferte e il ristoro per i permessi non concessi;

    come si dirà meglio infra, anche tale diritto non sussiste, se non per quanto riguarda i permessi ed un ristoro che si fissa per essi in euro 328,84;

    sempre in punto di fatto, va quindi disattesa la censura - di cui al secondo motivo - in ordine all'omesso esame di circostanze decisive; non può infatti affermarsi in assoluto che la sentenza di appello abbia trascurato quei fatti, perché essa, nell'escludere una strategia persecutoria, fa riferimento alle condotte «considerate nel loro insieme», per poi analizzare in particolare quelle «asseritamente maggiormente lesive» riguardanti gli incarichi per la sicurezza e ribadendo poi che le valutazioni riguardavano comunque anche gli «ulteriori episodi denunciati» ;

    al di là di ciò, la denuncia di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. è svolta elencando una serie di circostanze, delle quali non è dato percepire l'effettiva decisività, se non sulla base dello sviluppo di un ragionamento di merito radicalmente alternativo a quello svolto dalla Corte territoriale secondo cui dall'insieme dei fatti non restava neppure ingenerato il dubbio di un intento persecutorio, mentre i comportamenti denunciati avevano trovato ragionevoli motivazioni nelle difese del Ministero e nell'interrogatorio libero del dirigente e in definitiva l'accaduto andava ridotto a personali interpretazioni (negative) dei vari episodi e ad una particolare risposta soggettiva della ricorrente rispetto alle scelte organizzative da tempo in tempo assunte ed interferenti con la sua persona;

    le circostanze di cui la ricorrente afferma esplicitamente l'integrale omesso esame sono poi elencate con i numeri 4, 7, 8, 10, 11, 13 e 14; si tratta tuttavia di condotte (richiesta di scuse, richiesta di indicazione di norme rispetto a domande di permessi, erronee informative sulla soprannumerarietà, assegnazione di incarichi per elaborazioni poi non utilizzate; pubblicizzazione di denuncia su irregolarità rilevate dalla ricorrente nelle elezioni delle rappresentanze sindacali; consegna in classe delle contestazioni disciplinari) che, pur seguendo la descrizione della ricorrente contenuta nella prime pagine del ricorso per cassazione, appaiono suscettibili di diverse valutazioni, non necessariamente in termini di illiceità e che dunque è la ricorrente a sentire come umiliazioni, pur non essendo inevitabilmente tali e non essendo state evidentemente intese come tali dalla Corte di merito;

    altre condotte (mancata convocazione a riunioni, ma anche l'essere emersa in sede di contrattazione di Istituto la questione sui rimborsi alla ricorrente per il Corso sulla sicurezza) risultano descritte in modo eccessivamente generico per imporre con la necessaria decisività una diversa valutazione in ipotesi rilevante ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. ed altre ancora (questioni sul rimborso dei costi per il Corso di formazione ed oneri collegati), di cui si dirà in dettaglio di seguito, sono in sé caratterizzate da complessità giuridiche e fattuali tale da escludere, anche per la limitata rilevanza economica entro cui esse risultano infine fondate, di poter muovere in base ad esse decisive argomentazioni tali da sovvertire con alto grado di probabilità il giudizio globalmente sviluppato dalla Corte territoriale rispetto all'intenzionalità lesiva delle condotte o ad un indebito ed ineludibile coefficiente stressogeno ad esse conseguente; nell'insieme dei fatti in esso richiamati, il motivo non integra in definitiva un idoneo rilievo ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. ed ha ancora la portata di una prospettazione di una diversa valutazione di merito dei fatti di causa, impropria rispetto al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148); tale ragionamento esclude altresì che abbia pregio il richiamo ad una violazione delle norme sulle presunzioni, per mancato esercizio del corrispondente potere di deduzione logica, rientrando oramai tale aspetto nell'ambito della fattispecie di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 6 luglio 2018, n. 17720), della quale come detto non ricorrono i presupposti;

    neppure ricorrono le violazioni di legge di cui alle censure proposte dalla ricorrente con il primo motivo;

    secondo gli orientamenti maturati presso questa S.C. si può ritenere che:

    - è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell'art. 2087 c.c.;

    - è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c.;

    - è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.);

    - si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972);

    nel caso di specie, già si è detto dell'improponibilità, a fondamento di un assetto stressogeno, dell'unico inadempimento (quello sui permessi) che si va infine a ravvisare;

    quanto al resto, la Corte territoriale non nega che la ricorrente abbia potuto sviluppare, in ragione anche dell'attività lavorativa, una sindrome depressiva, ricollegandone tuttavia l'insorgenza ad una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dalla dirigenza scolastica e quindi escludendo che si determini il sorgere di un diritto risarcitorio;

    al di là della valutazione etiologica, di tenore più spiccatamente medico legale e sulla quale si appuntano alcune delle critiche della parte ricorrente, ciò che va qui valutato è il ricorrere o meno di una condizione ambientale stressogena giuridicamente rilevante, nel senso di tale da comportare il sorgere di una responsabilità risarcitoria secondo le fattispecie racchiuse nella denominazione di straining, nella variante colposa di esso, come detto riportabile comunque alla fattispecie di cui all'art. 2087 c.c.; la Corte d'Appello ha in concreto ritenuto che, nel complesso, le condotte datoriali si caratterizzassero per essere munite di ragionevoli motivazioni e giustificazione dell'operato;

    tale valutazione in sé esclude che, se anche in concreto l'effetto della convivenza lavorativa sia stato quello dell'insorgere in capo alla S. di una sindrome depressiva, di essa si possa incolpare a titolo risarcitorio il datore di lavoro;

    infatti, la ragionevole motivazione e giustificazione significa che, quali che siano le reazioni soggettive dei singoli coinvolti dall'ambiente, quanto fatto corrisponde a connotati inscindibilmente non impropri di quella prestazione e contesto lavorativo;

    questa S.C. ha infatti già ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013 cit. e, prima Cass. 21 ottobre 199, n. 10361), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.p.r. 1124/1965 e d. Igs. 38/2000, nelle forme della c.d. "costrittività organizzativa"), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell'art. 2087 c.c., che regola anche tale fattispecie;

    il riconoscimento di tale ragionevole motivazione e giustificazione esclude dunque ogni responsabilità risarcitoria perché integra di per sé il fatto che il datore di lavoro abbia tenuto un comportamento consono al contesto, sicché per escludere il danno dovrebbe in realtà impedirsi l'attività, il che non può essere perché il servizio scolastico è ineludibile e comporta necessariamente quei contatti umani e quanto ne può ordinariamente conseguire;

    la positiva valutazione della Corte territoriale rispetto all'appropriatezza dei comportamenti, pur se tali da comportare legittime condizioni di divergenza in particolare con la S., rende superfluo qualsiasi ragionamento in ordine all'onere della prova, nel senso che, una volta dimostrata l'ordinarietà del conflitto e della situazione organizzativa ed interpersonale rispetto alla tipologia di ambiente e l'assenza di elementi di esorbitanza da tale normale assetto calibrato sulla tipologia del singolo lavoro, va da sé l'esonero del datore da responsabilità per il danno psichico che, in via di fatto, comunque emerga;

    il ricorso principale va dunque rigettato;

    il ricorso incidentale si articola su due motivi, di cui il primo dedicato alla violazione e\o falsa applicazione dell'art. 64 CCNL di comparto, degli art. 36 e 37 d. Igs. 81/2008, degli artt. 32-34 del Decreto Interministeriale 44/2001 e dell'art. 2 d. Igs. 163/2006 (Codice dei Contratti Pubblici), applicabile ratione temporis (art. 360 n. 3 c.p.c.) e con esso si assume che l'ipotesi della S. non rientra nel disposto dell'art. 64 del predetto CCNL in quanto quest'ultima riguarda i Corsi, a partecipazione gratuita e con rimborso delle spese di viaggio, organizzati dalla P.A. o dalle istituzioni scolastiche, mentre quello seguito nel caso di specie non era tale ed era Corso a pagamento;

    l'eventuale avvio dei docenti ad un corso svolto all'esterno della P.A. come forma di corso lato sensu organizzato dall'istituzione scolastica, secondo il Ministero, avrebbe dovuto vedere coinvolto il Dirigente Scolastico, nella sua capacità negoziale, quale contraente secondo le regole proprie della gestione amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche;

    la scelta del Corso da parte della stessa docente, in tale quadro, sempre secondo il Ministero costituiva violazione della disciplina di cui sopra, oltre che dei principi propri dei contratti pubblici, quali delineati ratione temporìs, dal d. Igs. 163/2006;

    con un secondo motivo il Ministero nega che vi fosse stata l'autorizzazione del Dirigente Scolastico allo svolgimento di quel Corso, affermando che egli si era limitato ad apporre un visto, senza alcuna aggiunta, alla richiesta di permessi retribuiti da parte della ricorrente ed al proposito il motivo adduce il vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., per non avere la Corte territoriale considerato il documento del 21.10.2011, di pochi giorni precedente, in cui il medesimo Dirigente, a fronte della richiesta di permessi per la frequenza a quel Corso in data 19.10.2011, aveva chiesto a quali norme della contrattazione collettiva quella richiesta facesse riferimento e rilevava come la frequenza a quel Corso fosse stata ritenuta - dalla docente - autorizzata prima ancora di una risposta da parte del Dirigente;

    i due motivi vanno analizzati congiuntamente, stante la loro connessione;

    il fatto che dal doc. 5, destinato alla richiesta di permessi per il diritto allo studio, derivasse l'autorizzazione alla docente a frequentare quel Corso di formazione non è in sé efficacemente attinto dai motivi di ricorso, sia perché il primo di essi è di mero diritto, sia perché il secondo adduce una diversa interpretazione del significato da attribuire a quel documento la cui censura, trattandosi in sostanza di un atto amministrativo, avrebbe semmai dovuto essere veicolata nelle forme della violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.) attraverso il richiamo ai canoni ermeneutici violati e non certo richiamando l'art. 360 n. 5 c.p.c., senza contare che il documento contiene la scritta "si autorizza" e non solo un "visto";

    resta viceversa aperta la questione in ordine al fatto che, effettivamente, dalla autorizzazione alla partecipazione a quel Corso derivasse quanto assume la Corte territoriale, ovverosia un obbligo di rimborso dei costi di esso, di quelli per le trasferte e il diritto della ricorrente a fruire di permessi retribuiti;

    senza dubbio da quella autorizzazione deriva il diritto alla fruizione dei permessi, in quanto dall'art. 64, co. 5, del C.C.N.L. di comparto del 29.11.2007 si evince che il beneficio non dipende dal fatto che si tratti di corsi organizzati dalla P.A., in quanto anzi, in tal ultimo caso, non vi sarebbe proprio a parlare di permessi, ma di imputazione delle ore di formazione ad ore di lavoro (art. 64, co. 3 del medesimo C.C.N.L.); il numero delle ore non appare poi incompatibile con la previsione contrattuale né il Ministero adduce ragioni per cui quei permessi effettivamente non spettassero;

    viceversa, l'avere direttamente fatto discendere, dalla mera autorizzazione a partecipare a quel Corso, il diritto al rimborso dei costi di quelle sessioni formative svolte da un soggetto non incaricato dalla P.A., oltre che dei costi di trasferta non è invece, in sé, corretto;

    in linea di principio, il diritto all'esenzione dai costi, anche quale delineato dall'art. 64, co. 3 cit. discende dal fatto, fisiologico, dell'organizzazione dei corsi, interni o esterni, ad opera dello stesso datore di lavoro, secondo quanto previsto e regolato in materia di sicurezza dall'art. 32 del d. Igs. 81/2008, non potendosi certamente avallare un diritto in tal senso in conseguenza di decisioni del solo lavoratore;

    la contrattazione del corso e dei suoi costi deve poi provenire dalla P.A. e non dal dipendente, secondo le regole di cui, ratione temporìs, al D.M. 44/2001 e più in generale alla disciplina sui contratti pubblici richiamate dal Ministero e da ciò seguirebbe il radicarsi degli oneri direttamente in capo al datore di lavoro ed il diritto del lavoratore al rimborso delle spese di trasferta;

    l'autorizzazione alla fruizione di permessi per il diritto allo studio e a partecipare con essi ad un certo corso non può dunque surrogare la necessaria iniziativa negoziale della P.A.;

    né si può sostenere, come si afferma nel richiamare i fondamenti dell'azione sul punto (ricorso per cassazione, pag. 3, punto 4), che vi fosse stato un impegno al rimborso da parte del Dirigente - ammesso e non concesso che ciò potesse avere una qualche valenza giuridicamente idonea - o, come sostenuto nella memoria finale, che l'autorizzazione potesse valere come una sorta di ratifica dell'operato negoziale della dipendente (svolto in proprio, come emerge anche dalla fattura), perché di ciò nel documento non vi è traccia e dal contesto di causa (v. il documento 21.10.2011 menzionato dal Ministero) emerge semmai un atteggiamento del Dirigente viceversa ostativo, pur dopo la trasmissione (in data 14.10.2011, doc. 6 della ricorrente) dei documenti riguardanti quel Corso;

    tutto ciò comporta, con l'accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale, la cassazione in parte qua della sentenza di appello, con possibilità di pronunciare nel merito il rigetto della pretesa al rimborso dei costi di quel Corso e dei costi di trasferta;

    il motivo non ne fa cenno e comunque non vi è invece ragione, secondo quanto si è già detto, per disconoscere il diritto a quanto attribuito dalla Corte territoriale per il ristoro conseguente all'indebito diniego dei permessi retribuiti, viceversa spettanti ed autorizzati nei termini di cui sopra; la cassazione non raggiunge quindi la condanna del Ministero al pagamento in favore della S. dell'importo di euro 328,84, oltre accessori, in sé ricostruibile dal contesto della motivazione della sentenza impugnata e che resta come tale confermata;

    l'accoglimento, in misura assai parziale e soprattutto di una sola delle pretese azionate, individuando una soccombenza reciproca, giustifica la compensazione delle spese di tutti i gradi;

     

    P.Q.M.

     

    Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale nei sensi di cui in motivazione, cassa in parte qua la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, respinge anche la domanda di rimborso dei costi per la partecipazione al Corso e di rimborso delle trasferte, compensando le spese di tutti i gradi di giudizio.

    Ai sensi dell'art. 13 co. 1-quater d.p.r. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del co. 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

 

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